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SPERIAMO CHE NON SIA UN PAREGGIO
Fra sei giorni gli italiani saranno chiamati alle urne, si chiude una campagna che ha suscitato scarso entusiasmo. L'ipotesi del pareggio si accredita anche nelle dichiarazioni istituzionali, ma per il Paese sarebbe una vera iattura.
di
DOMENICO MENNITTI

[07 apr 08] Questa che oggi si avvia è l’ultima settimana di campagna elettorale. Fra sette giorni conosceremo i risultati e sapremo quali prospettive si apriranno per l’Italia. Il dibattito che si è svolto lungo la campagna ha messo in evidenza la gravità della situazione, la complessità dei nodi da sciogliere, i margini strettissimi dei tempi; meno definite appaiono le soluzioni che ciascuna delle parti in causa intende adottare. La gara è stata fra le promesse più suggestive, evocate senza fare i conti con le condizioni reali del Paese, le crisi delle risorse non solo finanziarie, ma pure di progetti. Questa campagna rischia di somigliare molto a quella del 1996, quando Berlusconi partì di gran carriera, ma poi perse colpi lungo il percorso soccombendo sui problemi specifici. Certo, Veltroni non ha la carica per fare ipotizzare grandi rimonte ed è per questo che si è diffusa la sensazione del pareggio. Che, riflettendoci bene, sarebbe il risultato peggiore, la espressione grigia di due società – quella civile e l’altra politica – incapaci di prendere coscienza delle difficoltà e di adoperarsi per superarle assumendo decisioni nette e coraggiose.

Sembrava dovesse essere la campagna dei due grandi partiti innovatori, portatori di scelte destinate a cancellare i condizionamenti delle diversità collegate nella prospettiva unica di vincere le elezioni, ma deficitarie nella capacità di governo. Ed invece, strada facendo, hanno guadagnato un posto centrale le piccole formazioni, fautrici del risultato di parità perché speranzose di diventare aghi della sgangheratissima bilancia del potere. Berlusconi e Veltroni, che si erano rappresentati agli elettori come condottieri moderni in grado di tracciare un programma e di candidare a governarlo protagonisti culturalmente e politicamente compatibili, si son dovuti molto spendere nella teorizzazione del voto “utile”, vecchio arnese propagandistico in auge ai tempi della “democrazia mutilata”. E’ come se, nell’arco di poco più di un mese, il vecchio abbia riguadagnato spazio a danno del nuovo. Per dirla con una efficace espressione dalemiana, “il morto ha trascinato il vivo”. L’operazione è stata agevolata dal sistema elettorale, che ha emarginato dalla competizione elettori e futuri eletti, riducendo il confronto a due protagonisti principali e tre o quattro comprimari. La conseguenza è non solo un diffuso disinteresse dei cittadini, tiranneggiati dal sistema della botta e risposta fra protagonisti terribilmente simili, ma anche – e soprattutto – la decapitazione della classe dirigente. Particolarmente nella periferia non c’è un punto di riferimento diretto ed occorre dire che il territorio non è elemento marginale della politica, inteso non solo come dato amministrativo, piuttosto come dato di costume, di cultura, ma anche di esigenze sociali, di specifiche peculiarità economiche e politiche.

E’ stato perciò inevitabile che, a qualche settimana dalla conclusione della tenzone oratoria, gli osservatori, stanchi di riportare sul taccuino proposizioni e repliche scontate e banali, si siano esercitati nel definire “moscia” la contrapposizione fra le parti in causa. Sembra la irresistibile deriva verso un pareggio che non si capisce bene quanto sia temuto o auspicato, ma che in ogni caso segnerebbe per il Paese un punto di non ritorno. L’auspicio del capo dello Stato che ci si predisponga a decisioni condivise per il bene dell’Italia è un appello che nega la cultura politica di Napolitano, che in verità nel corso della sua vita ha detto molto di più e di meglio. Perché un Paese può uscire dal pantano della crisi se una forza moderna, sostenuta dal consenso degli elettori, assume decisioni obiettivamente efficaci sulle quali anche l’opposizione può straordinariamente convenire. Che è cosa ben diversa dall’inaugurazione di una stagione di compromessi, che prevede accordi preventivi oppure - inesorabilmente – la paralisi. Si sa che, in genere, prevale la seconda ipotesi. Quanto sopra per dire chiaro e tondo che non tifiamo per il risultato di parità e che, anzi, lo riteniamo una iattura. Speriamo che la pensino così anche gli elettori italiani e che compiano una scelta responsabile. Che investano insomma sul futuro del Paese, costringendo questi deboli partiti italiani ad attrezzarsi per fare altrettanto.


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