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[21 mar 08]

10.000 AC, tanti effetti e poca trama

Il battage pubblicitario per il lancio di 10.000 AC poteva nascondere una duplice interpretazione: ci trovavamo di fronte a un capolavoro del cinema o a un film costoso ma riuscito male, e che quindi necessitava di laute entrate al botteghino. Dopo averlo visto, confidando nella innegabile bravura del regista Roland Emmerich (Independence Day, The day after tomorrow), abbiamo decisamente optato per la seconda opzione. 10.000 AC è indubbiamente un film tecnicamente notevole, con ambientazioni grandiose e degne dei kolossal del tempo che fu. Ma la trama è scarna, i dialoghi poveri e a volte persino ridicoli. La storia di D’Leh, giovane membro di una tribù di cacciatori, sa di già visto, di canovaccio usato e abusato in passato: il giovane protagonista interpreta il classico ruolo dell’eroe messianico, del liberatore, del capopopolo coraggioso e vittorioso.

La trama, in breve, è questa: in seguito a una carestia che colpisce la tribù, la vecchia “sciamana” invoca gli spiriti e profetizza l’ascesa di un cacciatore coraggioso che salverà il suo popolo dalla rovina. Con un salto di molti anni, ritroviamo D’Leh già adulto, fisicamente possente, moralmente impeccabile, che si innamora della trovatella Evolet. Non poteva mancare la storia d’amore, dunque, che sarà il vero motore della vicenda. E proprio il rapimento di Evolet (e di molti altri membri della tribù) da parte dei “demoni a cavallo” (gli egiziani), scatena la reazione di D’Leh. Comincia così un viaggio avventuroso attraverso montagne, vallate, foreste tropicali e deserti per raggiungere la bella in pericolo, fino a scoprire un mondo che i poveri cacciatori non potevano neanche lontanamente immaginare. Dalle nevi perenni al rigoglioso Nilo, dalle capanne di rami alle maestose piramidi egiziane, alla cui costruzione lavorano migliaia di schiavi rastrellati in tutta l’Africa orientale (tra cui Evolet e gli altri membri della sua tribù). La parte finale della storia, tra colossali scene di massa particolarmente suggestive, è di una prevedibilità spiazzante: D’Leh libera gli schiavi, uccide il faraone e torna tra le sue montagne ammantato di gloria e splendore. Non prima, però, di aver assistito a una poco credibile (ma molto prevedibile) resurrezione di Evolet.

Fin qui la storia. Per quanto riguarda il risultato strettamente tecnico, c’è poco da dire: Emmerich è un maestro degli effetti speciali e delle ambientazioni da kolossal. Lo ha dimostrato in Independence Day e poi nel blockbuster catastrofico The day after tomorrow. 10.000 AC non fa eccezione e il regista tedesco trapiantato negli Usa conferma la sua particolare attitudine alla grandiosità delle scene. Però non basta, non in questo caso. Innanzitutto perché storicamente il film è impreciso, approssimativo, un collage di eventi e situazioni per nulla omogenei tra loro. Le piramidi, ad esempio, sono datate attorno al 2750 a.C. e solo alcune teorie (peraltro storicamente e scientificamente discutibili) fanno riferimento al 10.000 a.C. E poi che dire della tigre dai denti a sciabola che fa capolino a un certo punto del film in una foresta tropicale? Anche in questo caso, Emmerich si rifa a teorie di nicchia, accreditando l’ipotesi che l’imponente animale vivesse anche in quelle zone e con quel clima. Ma in fondo è cinema, finzione, fantasia. E potremmo anche perdonare gli azzardi storici. Quello che non riusciamo ad apprezzare, però, è il piattume narrativo, il messaggio banale, il buonismo di maniera.

Liberare migliaia di persone dalla schiavitù, da Mosé in poi, è sempre stata un’azione meritoria. Ma proprio perché la storia (anche quella del cinema) è piena di episodi del genere (peraltro molti ambientati proprio in Egitto), ci chiediamo se Emmerich non avrebbe potuto offrire qualcosa di più originale. Anche perché è davvero un peccato che questo film non sia riuscito. I presupposti c’erano tutti: il regista veniva dal successo planetario di The day after tomorrow, il budget era alto, la perizia tecnica innegabile. Ma sulle colline di Hollywood, a volte si predilige un po’ troppo il lato spettacolare di una pellicola, a scapito del plot narrativo che, in fondo, dovrebbe essere l’asse portante di ogni film. Il cinema d’autore tout court non ci ha mai appassionati più di tanto, ma vogliamo sperare che tra i noiosi polpettoni del cinema francese e le americanate tutte spettacolo e poca trama ci sia una ragionevole via di mezzo.

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