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[29 apr 08]

L'ultimo volo di Tempelhof

Magari fra qualche anno se ne pentiranno, come è accaduto per il Muro. Magari fra qualche anno il sindaco di Berlino tirerà fuori una nuova audio-guida per accompagnare i curiosi nel giro turistico virtuale dell’aeroporto che salvò Berlino Ovest dall’isolamento sovietico: il ponte aereo di migliaia di aerei americani, chiamati “Rosinenbomber” (bombardieri di uva passa), che nei mesi drammatici fra il 1948 e il 1949 fecero la spola da occidente a questo aeroporto per rifornire la città di cibo e medicinali e vincere la prima battaglia di una lunga guerra fredda. Magari invece avrà avuto ragione lui, Klaus Wowereit, e con lui tutti quei cittadini che domenica hanno disertato le urne referendarie, spegnendo le ultime luci di Tempelhof, il terzo e più vecchio aeroporto berlinese. In attesa che chiuda i battenti, fra qualche anno, anche Tegel per trasferire tutto il traffico aereo della vera capitale europea nel ristrutturato e ampliato scalo internazionale Berlino-Brandeburgo che si annuncia sulle ceneri dell’aeroporto di Schönefeld.

E magari Wowereit sarà riuscito nel miracolo di destinare la preziosa pista di Tempelhof e i campi che la circondano all’ennesimo parco urbano, capace di competere con il Tiergarten, strappandolo alla speculazione immobiliare che già si annuncia minacciosa e destinando lo storico fabbricato dell’aeroporto (che è sotto tutela) a qualcosa di utile: all’università riunita di Berlino, come proponeva già qualche anno fa l’Economist suggerendo di riunire in quelle mura storiche le tre università oggi disperse sul territorio cittadino; o a un museo del ponte aereo, uno spicchio di storia cittadina ed europea costretta ad ammuffire negli stessi luoghi in cui si era svolta.

Domenica scorsa si votava un referendum per salvare l’aeroporto, alla fine sponsorizzato anche da Angela Merkel. Il referendum è fallito. Ma Berlino è fatta così. Città carica di storia, di storia drammatica, quella che sui libri viene definita come contemporanea, che ha plasmato il terribile e affascinante Ventesimo secolo. Eppure città destinata per vocazione e frenesia a liberarsi di quel carico, frullando avvenimenti e memorie in un caleidoscopio irrefrenabile di cambiamenti, mutazioni, trasformazioni, camaleontismi. La città ha votato. O meglio non ha votato. Impedendo al quorum di essere raggiunto. Ci sarebbero voluti 610mila “sì” al salvataggio di Tempelhof. Dallo scrutinio delle urne ne sono arrivati 530mila: 80mila di meno. Il 21,7 per cento degli aventi diritto: tre virgola tre punti sotto la soglia. E poco importa che al conteggio dei votanti, i “sì” abbiano raggiunto il 60 per cento e i “no” il 40. Berlino era chiamata a un referendum consultivo. Poteva provare a salvare l’aeroporto. Solo una vittoria dei “sì” avrebbe potuto condizionare le scelte del Senato locale che aveva già disposto la chiusura. Ora i mesi sono contati: l’aeroporto del ponte aereo va in pensione ed è ormai pronto a sventolare i fazzoletti per il suo ultimo volo.

Ma il confronto lascia anche uno strascico di polemiche. E consegna alle cronache una città che si riscopre divisa. Fra Est ed Ovest. A urne aperte, code in fila nei seggi elettorali dei quartieri occidentali, deserto o quasi in quelli orientali. Tempelhof è storia di parte. Non condivisa. Per esperienza: il blocco sovietico che mirava a far cadere l’intera Berlino Ovest nella sfera d’influenza comunista è stato vissuto con drammaticità solo a occidente e le due propagande dell’epoca hanno plasmato memorie differenti che il tempo non ha ricomposto. Per pathos: le “Rosinenbomben” americane sono state un’epopea dell’Ovest, che portavano a una popolazione sconfitta due volte (dalla guerra calda e dagli inizi della guerra fredda) non solo cibo ma anche il mito dell’America, di Hollywood, dell’ottimismo, della libertà e della speranza di ricominciare dopo l’incubo nazista. Mentre dall’altra parte la speranza comunista in un mondo migliore viaggiava già sui carri armati e sui dispacci burocratici che quegli spazi di libertà chiudevano.

E poi si aggiungono i problemi di oggi, quelli di una riunificazione che prosegue a velocità diverse, di un’unità vissuta a oriente come un’annessione, al disagio della disoccupazione, all’impossibilità o all’incapacità di adattarsi a un sistema competitivo. Tempelhof, con le sue memorie, con i suoi piccoli aerei regionali, era roba da “Wessis”: che se la sbrigassero da soli. E infatti, domenica sera, passeggiando per le strade ricche e alberate di Zehlendorf, il commento più frequente era: gli “Ossis” ci hanno chiuso il nostro aeroporto. Non ci sarà più Tempelhof, ma il Muro, almeno per una notte, è tornato.

Sotto il peso di tante passioni, poca importanza ha avuto il risvolto attuale di questo scontro. E cioè il tipo di trasporto aereo in una città moderna. L’opzione tedesca di un solo grande aeroporto cittadino (sponsorizzata dalla compagnia di bandiera Lufthansa che gradisce concentrare in un solo luogo personale e mezzi) o quella di più aeroporti – grandi e piccoli – secondo i modelli di Londra e Parigi? Qual è quello vincente? Quali sono i costi? Cosa servirà a un traffico aereo che si annuncia in crescita esponenziale? Come mediare tra le esigenze di una forte compagnia di bandiera (beati loro) e quelle delle aggressive compagnie low cost? A questi interrogativi il dibattito referendario non ha risposto. In fondo, per una volta, la modernissima Berlino ha preferito confrontarsi sul valore della memoria. E ha perduto. A modo loro, hanno perduto tutti. L’Ovest. L’Est. Il sindaco arrogante. E la cancelliera opportunista.

 

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