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VELTRONI, UNA LEADERSHIP DA RILEGITTIMARE
Dopo la doppia pesante sconfitta del Pd, nel loft democratico regna l'incertezza. E Veltroni pensa a un congresso per riaffermare la sua posizione.
di
ANTONIO FUNICIELLO

[30 apr 08] Su quanto accade dalle parti di piazza Anastasia, la sede di partito più glamour del mondo, dopo il trionfo del candidato sindaco meno glamour mai visto, si fanno strada due interpretazioni. Entrambe muovono dall'incertezza del Pd mostrata già dopo la sconfitta di due settimane fa e acuita dall'ascesa al Campidoglio di Alemanno, tra le bandiere tricolori e i cori dei clacson dei tassisti. C’è, da un lato, chi legge in quella incertezza l'indice di un disagio e di una difficoltà momentanee: il disagio non diremmo psicologico, ma senz'altro umano, umanissimo per aver perso la capitale governata negli ultimi sette anni proprio da Walter Veltroni e la difficoltà dell’analisi del voto di Roma città e Roma provincia, in aperta e amara contraddizione. Dall’altro lato c’è, invece, chi sostiene che l'incertezza che si respira negli spazi aperti del loft va chiamata con un nome più appropriato, cioè “confusione”, e rappresenterebbe la cifra di un limite strutturale dell’attuale classe dirigente democratica, in primis del suo leader. Un uomo, insomma, che il fisico da traversata nel deserto proprio non sembrerebbe avere, come hanno scritto alcuni.

La vicenda dei capigruppo democratici alla Camera e al Senato sembrerebbe dare ragione a questi ultimi. Il voto di fiducia implicito posto da Veltroni sulla sua indicazione di riconferma ai gruppi parlamentari di Soro e Finocchiaro, è letto come un arroccamento difensivo al fine di scongiurare l’ipotesi Bersani presidente del gruppo camerale. Dalla sua appassionante dichiarazione di disponibilità a correre per segretario del Pd (discorso del Lingotto, 27 giugno 2007), Veltroni ha sempre giocato all’attacco, cercando di suscitare un sentimento di simpatia e partecipazione per la sua proposta modernizzatrice. Questo in dichiarata e netta controtendenza con l’immagine della sinistra riformista consegnata dal governo Prodi. Chiedere ai gruppi parlamentari democratici di confermare i capigruppo ulivisti del fu desolante caravanserraglio prodiano è una contraddizione in termini. Le linee Maginot sono destinate ad essere aggirate: solo un molto effimero sentimento di passeggera sicurezza può ispirare un simile cambiamento di strategia, ma già nel medio periodo avere dei gruppi parlamentari ostili, giudicati troppo inesperti e quindi inadatti a concorrere alla scelta fino dei loro capigruppo (vedi intervista a La Stampa del sottotenente del loft Ermete Realacci) è un errore campale. Per non parlare del lungo periodo che misura i cinque anni da attendere per le politiche del 2013.

Altri pensano, invece, che l'incertezza di Walter Veltroni non sia un dato strutturale del suo carattere. Come i più critici nei suoi confronti, anche i sostenitori della difficoltà contingente hanno letto Eraclito (“Il destino di un uomo è il suo carattere”) e non credono ancora che il leader del Pd abbia fatto un sol giro sulla giostra per scenderne tanto presto. Ma al di là degli auspici più benevoli di costoro, è interessante capire come sia effettivamente possibile per Veltroni provare a tirarsi su e diventare il timoniere dell’arca democratica, smarrita nelle acque di quel diluvio universale che sempre è prescritto in Europa alla sinistra che abbandona definitivamente il disastrato porto marxista. E’ chiaro che Veltroni ha bisogno di una nuova legittimazione del suo potere. Il primo congresso ordinario del Pd, previsto da Statuto non oltre due anni dopo le primarie del 14 ottobre 2007, deve essere anticipato già al prossimo autunno. Sarebbe un errore gigantesco da parte di Veltroni lasciare ai suoi oppositori interni la richiesta di convocazione del congresso. La prova definitiva che il segretario del Pd si è chiuso in difesa e da lì non intende muovere. Se convocato da lui, il congresso potrà essere, al contrario, la sede ufficiale dove rilanciare la sfida innovatrice fissata nel programma avanzato agli elettori; costruire una rinnovata (magari meno plebiscitaria ma certo più salda) maggioranza interna a suo sostegno; cambiare i due capigruppo dopo l’attuale conclusione della fase emergenziale; costruire una nuova squadra.

In tal senso quella dello shadow cabinet è un’ottima idea. Ma a condizione che sia davvero il ruolo di comando dell’azione politica di alternativa di governo dei cinque anni di opposizione del Pd. Questo è possibile scegliendo le migliori teste del panorama politico democratico e investendo sulla loro capacità di elaborare strategie e contenuti che possano essere percepite come controcanto vero del quarto esecutivo Berlusconi. E, insieme, garantendo per loro la guida politica del Pd nei settori di competenza. Un esempio, per concludere. Il referendum della prossima primavera impone un’accelerazione di governo e Parlamento in tema di legge elettorale. A gestire questa partita dovrà essere per il Pd il futuro shadow minister per le riforme (o Ceccanti o Vassallo: tertium non datur), coerentemente con una proposta di riforma condivisa da Veltroni. Se, come è accaduto nella scorsa legislatura, Veltroni dovesse puntare su un modello spagnolo, mentre nelle commissioni affari costituzionali D’Alema, Marini o altri puntassero su altri modelli, il governo ombra sarebbe già fortemente delegittimato. E con esso Walter Veltroni. E con loro l’intero progetto democratico.


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