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Usa, i democratici cavalcano il protezionismo
di
STEFANO MAGNI

[30 apr 08] E’ l’economia che domina la propaganda della campagna elettorale americana, non più l’Iraq. L’arma del pacifismo sembra ormai spuntata: i democratici non possono più chiedere all’americano medio di ribellarsi a una guerra che sta andando sempre meglio per le forze statunitensi, grazie alla strategia del surge voluta da George W. Bush, sostenuta dal candidato repubblicano John McCain ed eseguita dal generale David Petraeus, futuro comandante di tutto il teatro d’operazione mediorientale. E così i democratici puntano maggiormente sulla retorica del “disastro economico”. Che viene attribuito interamente a George W. Bush. L’accusa principale rivolta all’amministrazione repubblicana è l’indisciplina fiscale: il taglio delle tasse, non bilanciato da un taglio delle spese, ha aumentato il deficit. Su questo punto neppure i conservatori e i libertari vicini al Partito repubblicano hanno qualcosa da obiettare. Ma è curioso vedere come sia Hillary Clinton che, soprattutto, Barack Obama, usino questa critica per proporre un aumento delle tasse per chi ha redditi più alti, invece che un responsabile taglio delle spese. E’ semmai il candidato repubblicano John McCain a promettere nel suo programma (coerentemente con la sua azione di senatore) spese più contenute e trasparenti. Obama ripropone la vecchia retorica socialista del “tassare i ricchi”, per dare ai poveri o per finanziare nuove infrastrutture. Per approvare nuove spese, insomma. “Cercherò di aumentare le tasse sulle rendite, ai fini dell’equità”, ha dichiarato Obama in una intervista rilasciata all’emittente Abc alla vigilia delle primarie in Pennsylvania. In questo modo ha sottolineato la sua ostilità non solo nei confronti dei ricchi, ma anche di chi investe e fa girare l’economia. E’ necessario punire i ricchi nel nome del benessere comune? No, come fa notare l’ex consigliere di Bush Peter Wehner: il taglio delle tasse, voluto fortemente dall’amministrazione repubblicana uscente, è proprio l’unica politica che sta salvando l’economia americana, perché ha generato una crescita della produzione e la creazione di 8 milioni di nuovi posti di lavoro. L’economia, insomma, sarebbe ora molto più fragile se non si fosse passata la riforma fiscale di Bush.

L’altro argomento forte dei democratici riguarda il commercio internazionale. Di fronte a un John McCain che propone più accordi di libero scambio e frontiere ancora più aperte, la retorica democratica, abbandonate le speranze clintoniane di un mondo globale, ora ripiega sulla protezione dei prodotti e dei posti di lavoro americani. Ricordando da vicino gli argomenti dell’estrema destra americana. Hillary Clinton, all’inizio della sua campagna elettorale, dichiarava: “Non è sufficiente criticare il Nafta (il trattato di libero scambio tra Canada, Stati Uniti e Messico, ndr), cosa che per altro faccio da anni. Io voglio promuovere un piano d’azione. Si deve avvertire il Messico e il Canada che noi possiamo anche recedere dal trattato, fino a che non siano rinegoziati gli standard sulla tutela del lavoro e dell’ambiente”. Barack Obama è ancora più duro su questo punto del programma: “Noi dobbiamo usare l’arma dell’opzione di uscita dal trattato come leva per assicurare l’applicazione degli standard lavorativi e ambientali”. Non si tratta solo di affermazioni retoriche, buone solo per la campagna elettorale e pronte ad essere scartate una volta conquistata la Casa Bianca. Sia Hillary Clinton che Barack Obama, nella loro attività parlamentare, come rileva uno studio di Sallie James del Cato Institute, hanno votato coerentemente contro l’abbassamento delle tariffe protezionistiche e contro la maggior parte dei trattati di libero scambio. “Proteggere i lavoratori americani” è stato il leit motiv delle campagne elettorali di entrambi i candidati democratici in Stati come il Michigan, l’Ohio e la Pennsylvania, dove il settore manifatturiero è più in crisi. Ma anche in questo caso: è vero che il protezionismo serve a proteggere i posti di lavoro? No. E a dimostrarlo sono i dati sull’occupazione. Lo Us Council of Economic Advisers ha calcolato che il commercio internazionale è causa di appena il 3 per cento della perdita dei posti di lavoro. Non c’è alcun nesso tra il Nafta e il calo dell’occupazione: nei quindici anni intercorsi tra la ratifica del trattato ad oggi, si sono creati, in media, 1,4 milioni di posti di lavoro all’anno.

Nello Stato dell’Ohio, dove è più forte la propaganda protezionista democratica, la disoccupazione attuale (5,8 per cento) è inferiore rispetto a quella che si registrava alla fine del 1993, prima che entrasse in vigore il Nafta. Sempre nell’Ohio, la disoccupazione era ridotta al 3,9 per cento nel 2001, sette anni dopo la ratifica del Nafta. L’esempio dell’Ohio dimostra che non è il libero mercato il “distruttore del lavoro” come sostengono i democratici. Le cause della disoccupazione sono da cercarsi altrove: nel progresso tecnologico, per esempio, che rende obsolete attività che non sono in grado di rinnovarsi. E non bisogna dimenticare che, come già detto, complessivamente l’occupazione cresce ogni anno negli Stati Uniti. Il che vuol dire che, per ogni vecchio posto di lavoro perso, ne nascono di nuovi, come in tutte le economie dinamiche. Nel sostenere fortemente una battaglia protezionista, inoltre, i democratici dimostrano una notevole flessibilità di valori. E’ coerente volere la fine dell’embargo a Cuba e chiudere le frontiere con il Messico e con la Colombia? No, perché sia Obama che la Clinton ritengono che l’inizio degli scambi commerciali con l’isola comunista possa favorirne l’apertura democratica. E non si capisce perché, allora, lo stesso discorso non possa valere anche per Paesi come il Messico e la Colombia che sono già democrazie, anche se instabili. I democratici hanno votato contro il Trattato di libero scambio con la Colombia, nonostante lo sforzo del presidente Uribe volto a disarmare le milizie paramilitari e a combattere il terrorismo delle Farc, a porre fine alle uccisioni di sindacalisti e allo sradicamento delle colture di coca. Mentre gli stessi democratici vorrebbero avviare un nuovo commercio con una dittatura, quale quella di Raul Castro, che tiene in carcere i dissidenti politici e, al massimo, permette ai cittadini di usare il telefono cellulare e il computer, ma non Internet. Non c’è alcuna coerenza nella retorica protezionista dei democratici. E non c’è neppure una solida base economica. C’è solo tanta ideologia.


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