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I giochi dell’alta finanza al tempo della crisi globale
di BRUNO PAMPALONI

[24 apr 08] Le notizie provenienti in quest’ultimo mese dai mercati globali invitano ad osservare con maggior attenzione i rapidi e talvolta sorprendenti cambiamenti in atto tra i vari attori economico-finanziari. Quante volte, infatti, abbiamo sentito ripetere dagli addetti ai lavori come l’Occidente sia minacciato dall’invasione dei fondi sovrani (della Cina, di Singapore o dei Paesi arabi) per poi assistere a improvvise piroette concettuali degli stessi analisti, che invece benedicevano quei fondi perché necessari a versare denaro fresco nella boccheggiante finanza americana? D’altra parte il “sistema” offre decine di esempi apparentemente contraddittori. In territorio cinese basti pensare alla politica più rassicurante adottata dal Cic (China Investment Corporation, il fondo sovrano munito di un portafoglio di 200 miliardi di dollari) e, nel contempo, a quella maggiormente aggressiva della Safe (State Administration of Foreign Exchange, l’autorità statale del Dragone che controlla i flussi in entrata e in uscita di valuta estera e gestisce di conseguenza riserve per un valore corrispondente a 1.650 miliardi di dollari). Infatti, mentre il Cic sembra ripiegare su investimenti conservativi, la Safe impone regole ferree alle banche straniere che operano in Cina e fa shopping in strategiche società occidentali (come accaduto di recente, con l’acquisto dell’1,6 per cento della francese Total, costato 1,8 miliardi di dollari).

Dal canto loro, i Paesi arabi del golfo sono importanti azionisti di società americane o europee (finanza e immobiliare i settori più gettonati) e sognano l’affrancamento dal dollaro, ma stanno molto attenti a non compromettere i rapporti con gli Stati Uniti. Washington resta in fondo il guardiano della regione e il miglior deterrente contro il fondamentalismo islamista. I cambiamenti in atto si prestano dunque a valutazioni davvero complesse. Insistere sugli effetti che essi provocano in America o in Europa è piuttosto fuorviante dato che le attività economico-finanziarie hanno travolto ogni “confine mobiliare”. Il capitale si sposta con una facilità sconvolgente e in direzione di chi è in grado di garantire remunerazioni o prospettive più interessanti. Si tratta di una constatazione alquanto banale. Resta perciò difficile spiegare il sostanziale disinteresse di molti analisti in merito all’operazione portata a termine di recente dalla Kuwait Investment Authority (Kia). Kia ha infatti investito 800 milioni di dollari nell’offerta iniziale di Visa, sbarcata a Wall Street il 19 marzo scorso. Perché allora non rilevare che, comprando 18 milioni di azioni al prezzo iniziale fissato a 44 dollari, proprio la Kuwait Investment Authority è arrivata a detenere il 4 per cento della compagnia? Eppure Kia non è un soggetto qualunque. Si tratta infatti di un ente governativo responsabile dell’amministrazione di General Reserve Fund (Grf), degli asset del Future Generations Fund (Fgf) e di altri fondi del ministero delle Finanze kuwaitiano. Gestisce, insomma, qualcosa come 225 miliardi di dollari e ne ha investiti più o meno 5 in Merrill Lynch e Citigroup durante la recente crisi finanziaria. Tanto sarebbe bastato per non far passare la sua partecipazione azionaria in Visa quasi del tutto inosservata.

Ma vi è di più. E si tratta di un di più che conta: nel 2006, infatti, con una spesa di 720 milioni di dollari, Kuwait Investment Authority è diventata il maggior azionista privato della Industrial and Commercial Bank of China, cioè la più grande banca cinese (il 15esimo istituto finanziario del mondo, secondo la speciale classifica pubblicata annualmente dalla rivista The Banker). Un colosso capace di accumulare esposizioni per 1.228 miliardi in seguito alla crisi dei mutui subprime. Una banca che fa shopping in tutto il mondo e che di recente ha acquistato il 20 per cento della South Africa's Standard Bank (305 milioni di azioni per un controvalore di 5,4 miliardi di dollari). Insomma, la partita di alta finanza che si sta giocando in questo periodo sembra destinata a sconvolgere le più tradizionali interpretazioni geopolitiche o economiche e a spazzare via strumenti concettuali quasi inadeguati ai tempi. L’ultima sfida per gli analisti è rappresentata dal rialzo dei prezzi alimentari. Un dramma che riguarda una moltitudine di persone nei Paesi in via di sviluppo o in quelli, come Cina e India, che siamo abituati a considerare svogliatamente ormai prossimi a standard occidentali. Forse proprio i due giganti asiatici pagheranno le maggiori conseguenze di questa improvvisa e nuova corsa al rialzo. Analisti come Matein Khalid vedono nell’inarrestabile ascesa dei prezzi alimentari il prossimo demone per gran parte dell’economia mondiale. Forse al punto di costringere gli esperti alle ennesime acrobazie intellettuali per spiegare come mai la travolgente crescita economica di Cina e India non porterà gli auspicati e prevedibili benefici a circa due miliardi di persone.


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