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Perché il Tibet non smuove i pacifisti
di ANTONIO DONNO

[04 apr 08] Dove sono finiti i pacifisti? I terzomondisti si sono forse ritirati nei loro salotti? Perché non riempiono le piazze e le strade con le bandiere del Tibet? Perché non bruciano quelle cinesi? Interrogativi solo apparentemente senza risposta. In realtà, la risposta è semplice: nella scena mancano i soggetti principali di tutte le ingiustizie, di tutti i soprusi, di tutte le violenze: gli Stati Uniti o Israele, meglio tutti e due insieme. A parte qualche sporadica manifestazione dinanzi all'ambasciata cinese e le prese di posizione dei governi occidentali, o qualche timida ipotesi di non partecipazione alle Olimpiadi di Pechino, la grande massa dei pacifisti e dei terzomondisti tace. La sinistra italiana glissa. Eppure, il Tibet è occupato con la forza dai comunisti cinesi sin dal 1950. Proprio quando aveva inizio il processo di decolonizzazione, il Tibet veniva colonizzato brutalmente dai cinesi. Nessuno obiettò, perché la decolonizzazione riguardava l'uomo bianco, non quello giallo. Riguardava le storiche malefatte dei bianchi nel Terzo Mondo, cui occorreva riparare con gran pentimento, mentre i gialli, che allora facevano parte del Terzo Mondo, potevano giovarsi di un salvacondotto storico per ogni nefandezza.

La filosofia terzomondista, che diceva di battersi per la liberazione dei popoli oppressi, distingueva senza batter ciglio i colonizzatori bianchi da quelli gialli. I bianchi dovevano espiare perché bianchi, i gialli erano esentati da qualsiasi condanna perché gialli. Così, l'accusa di razzismo che i terzomondisti rivolgevano con violenza al bianco europeo finiva per macchiare anche la loro nobile causa. Ma tutto ciò era un dettaglio senza importanza: era il “fardello dell'uomo bianco” l'oggetto del disprezzo dei terzomondisti. La “tirannia della penitenza” (Pascal Bruckner) avrebbe, da quel momento in poi, macerato l'uomo bianco europeo, lo avrebbe costretto ad un'espiazione perpetua, al marchio d'infamia, a portare ben altro fardello, quello del capitalista sfruttatore, affamatore degli innocenti popoli del Terzo Mondo, popoli senza macchia e senza peccato. Ma non il popolo giallo, portatore della rivoluzione proletaria, del sol dell'avvenire. Così, la questione politica entrava di colpo sulla scena dell'esenzione. Il bianco era capitalista, il giallo comunista. Differenza cruciale, per i terzomondisti. Il colonialismo non poteva che essere la quintessenza del bianco capitalista, non certo del giallo comunista. Anzi, la Cina comunista stava per irrompere sulla scena dei Paesi non-allineati, i Paesi del Terzo Mondo, coniugando il messaggio salvifico del comunismo con la nobile lotta dei popoli che si liberavano dal colonialismo bianco europeo.

Ecco spiegato perché l'occupazione del Tibet non poteva essere atto di sopraffazione coloniale da parte della Cina. L'esenzione, dunque, scaturiva da una spiegazione nello stesso tempo razziale e politica. Oggi, crollato il comunismo, i pacifisti non sanno più a che santo votarsi. Perciò, voltano la testa dall'altra parte, fingendo di ignorare il dramma tibetano. In fondo, di quale messaggio salvifico sono portatori i monaci tibetani? Chiusi nella loro cultura esclusiva, essi rivendicano soltanto la salvaguardia del loro mondo, non proiettano nulla che possa incrementare le colpe ataviche dell'uomo bianco, occidentale, capitalista. Perciò, il problema tibetano fuoriesce dallo schema caro ai terzomondisti, non aumenta il “singhiozzo dell'uomo bianco” (Bruckner), riguarda l'uomo giallo, è una questione tra cinesi e tibetani. Quando nel gioco mancano gli Stati Uniti o Israele, che gusto c'è a srotolare le bandiere arcobaleno o a sfilare in piazza? Così, si attende un'occasione vera, quando i nostri pacifisti potranno finalmente ricominciare a bruciare le bandiere americane o quelle israeliane. Questione di tempo.


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