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[25 mar 08]

Il futuro di Ankara passa da Berlino

Il treno della metro si inabissa nei corridoi sotterranei della Berlino turca. Una dopo l’altra scorrono le stazioni del quartiere di Kreuzberg, un tempo chiamata con orgoglio la Istanbul sulla Sprea. Fino a che il Muro lo ha costretto all’angolo e alla marginalità è stato a un tempo quartiere di lotta e di contestazione e terra di conquista degli immigrati turchi. Collettivi anarchici e chioschi di kebab. Demolito il confine, Kreuzberg s’è ritrovata al centro della Berlino riunificata, a cavallo tra il Mitte e Friedrichshain: agglomerati di case tornati appetibili per berlinesi benestanti.

Le stazioni della metro scivolano via tra porte che si chiudono e gente che sale e scende: Möckernbrücke, Kottbusser Tor, Hallesches Tor. Nomi tedeschi che ormai si possono declinare in turco. Lissù, in superficie, da anni l’odore cipolloso dei kebab ha soppiantato quello agrodolce del Currywurst, le grida anatoliche dei venditori di frutta e verdura hanno sostituito i silenzi ovattati dei mercati tedeschi. Qui giù, invece, nei vagoni gialli che muovono stridendo sul ferro dei binari in direzione est, i televisori interni rimandano la notizia dell’ultima condanna inflitta da un tribunale di Istanbul alla libertà di espressione. Facce scure come il cuore lontano della Turchia scrutano i monitor. Sono facce rassegnate, quelle degli anziani. Facce ostili, quelle delle donne con il velo sul capo. O facce dure, quelle dei giovani. Che si induriscono man mano che il treno si avvicina a Hermannplatz, Neukölln, il nuovo centro dello spaccio di droga. Turchi anche qui. E arabi. Le case da queste parti costano poco, il loro valore è crollato, i berlinesi vogliono andare via.

La Istanbul sulla Sprea vive sempre più da separata in casa. La notizia che la tv rimanda riguarda Eren Keskin, avvocato, impegnata nella difesa dei diritti umani e di quelli delle donne, condannata a sei anni di carcere da un tribunale di Istanbul per aver criticato il ruolo e l’influenza dell’esercito nella politica turca. Lo aveva fatto nel 2006, sulle colonne del quotidiano berlinese Der Tagesspiegel. Per condannarla è stato applicato l’articolo 301 del codice penale turco che vieta di denigrare i costumi e le usanze del Paese e di screditarne le istituzioni statali. E’ lo stesso articolo al quale si appellarono i nazionalisti qualche anno fa, quando portarono in tribunale il premio Nobel per la letteratura Oran Pamuk e altri intellettuali, colpevoli secondo loro di mettere in cattiva luce la Turchia e le sue tradizioni. Questa volta i giudici hanno convalidato le accuse e inflitto alla Keskin i sei mesi di carcere.

Una redattrice del Tagesspiegel intervistò Eren Keskin il 24 giugno 2006, quando in Turchia milioni di manifestanti scesero in piazza, si disse, per difendere la laicità dello Stato. Lei era stata scettica sul fatto di appoggiare incondizionatamente quelle manifestazioni, perché dietro la richiesta di difendere le istituzioni dalla crescente pervasività dei dettami islamici c’era il rischio di rafforzare la presenza delle forze armate nelle pieghe delle istituzioni. La Keskin non ha mai visto di buon occhio il ruolo dell’esercito, che se da un lato ha storicamente salvaguardato la laicità dello Stato dai rischi di infiltrazioni religiose come avvenuto in tanti Paesi islamici, dall’altro ha informato di autoritarismo politica e istituzioni, rivelandosi un vero e proprio Stato nello Stato. L’influenza delle forze armate è uno dei punti deboli del processo di integrazione turco nell’Unione Europea ed è stata sempre ampiamente criticata all’estero. Ma per un cittadino turco la critica è impossibile. Eren Keskin è un’attivista determinata, ancorata a una posizione ideologica pacifista e di sinistra, ma il suo diritto alla critica non è riconosciuto in un Paese che aspira ad entrare in Europa.

La nuova frizione fra Turchia e Germania avviene un mese dopo la crisi di Ludwigshafen, dove in seguito al rogo di un palazzo morirono carbonizzati nove cittadini turchi. Le indagini esclusero subito l’ipotesi di un attentato, propendendo per cause accidentali, ma nei giorni immediatamente successivi la stampa turca lanciò una violenta campagna accusando della strage ambienti neonazisti e rinfacciando al governo tedesco disinteresse verso la comunità turca. Il culmine della tensione si toccò con la visita in Germania del premier turco Erdogan, che in occasione dei funerali invitò i cittadini turchi residenti in Germania a integrarsi ma non ad assimilarsi. Un distinguo che il governo tedesco considerò ambiguo e pericoloso, soprattutto in presenza di una campagna di stampa anti-tedesca dai toni populistici e nazionalistici e priva di riscontri oggettivi nelle indagini.

Esattamente come in quei giorni molti politici tedeschi sollevarono il problema degli standard della democrazia turca e rimisero in discussione l’ingresso della Turchia nell’Ue, oggi di fronte al caso Keskin è il commissario per l’allargamento di Bruxelles, Olli Rehn, a farsi carico degli avvertimenti: “Il codice penale di Ankara deve essere modificato e le riforme per assicurare la libertà di opinione nel Paese sono un po’ più che in forte ritardo”. Sotto accusa è proprio l’articolo 301, incompatibile con la convenzione europea per i diritti dell’uomo. I giovani turchi di Kreuzberg scuotono il capo di fronte alla nuova crisi. Ma è sempre più evidente che il percorso che dovrebbe portare la Turchia nell’Unione Europea sarà lungo. E passerà inevitabilmente da Berlino.

 

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