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Cina, i progressi sospetti delle province occidentali
di BRUNO PAMPALONI

[03 apr 08] Dovevamo capirlo: il Dalai Lama e Rebiya Kadeer complottano contro le magnifiche sorti progressive dell’economia cinese. Perché, in Tibet e nello Xinjiang, chi si oppone alla politica di Pechino in realtà si schiera contro l’emancipazione di popolazioni vissute a lungo nella più totale miseria. E che solo ora si affacciano al progresso. Altro che pugno duro per soffocare ogni rivendicazione autonomista o per conculcare i diritti fondamentali della persona. Il governo centrale agisce in nome della pace e della prosperità. Basta dare un’occhiata ai dati economici che, non a caso, l’agenzia ufficiale cinese Xinhua ha comunicato nel fine settimana. Leggere per credere: nel 2007 molte delle province occidentali (fino ad appena un paio di mesi fa ancora neglette) hanno superato il resto della nazione in alcuni “parametri economici fondamentali”. Per esempio, la regione autonoma del Tibet ha “registrato il più alto livello nelle vendite al dettaglio”, mentre quella dello Xjinginag ha raggiunto “i vertici nelle esportazioni”.

Chi lo dice? I responsabili economici delle due province. E chi se no? I dati sono stati così trasferiti all’ufficio nazionale di Statistica per essere elaborati e diffusi. Non serve a convincervi? E allora sappiate che un’ altra regione pericolosamente frequentata da sovversivi, lo Sichuan, l’anno scorso ha segnato un incremento nelle vendite del 40,1 per cento. Una performance che l’ha proiettata in cima a questa speciale graduatoria, dietro solo al 43,4 per cento della Mongolia Interna (dove qualche altro “esaltato” si batte per i diritti della locale minoranza etnica). “L’output dello Sichuan ha toccato 1.05 trilioni di yuan (148 miliardi di dollari)”, risultato che ne fa “la prima provincia occidentale (e la nona in assoluto) a rompere la soglia di un trilione di yuan”. Quali erano i valori precedenti? Con cosa confrontare questi dati? Come sono stati calcolati? L’agenzia non fornisce ulteriori ragguagli. Ma spara una raffica di cifre tali da convincere chi, come noi, nutriva una certa simpatia per i monaci buddisti o gli imam uighuri, di aver sposato la causa della reazione. Poche storie. Nel 2007 in Tibet le vendite al dettaglio sono cresciute del 24.9% per cento (7.8 punti percentuali in più rispetto al 2006) e nello Xinjiang del 61.1 per cento, (un aumento del 20 per cento se confrontato con l’anno precedente).

Ma attenzione. Proprio perché nessuno osi pensare che Pechino faccia propaganda o trucchi i dati, Xinhua precisa che “l’output delle province occidentali, cresciuto in media del 13,94 per cento, era ancora inferiore a quello della parte orientale e centrale del Paese”. Inoltre, nel 2007 la produzione aggregata dell’oriente cinese “rappresentava solo il 17 per cento dell’analoga produzione nazionale”. E’ bene aver fatto chiarezza. Non date troppo peso al fatto che tale puntualizzazione è piazzata alla sedicesima riga del documento, confusa e annacquata da una marea di altre informazioni elettrizzanti. Piuttosto riflettete sulle dichiarazioni di Cai Zhizhou, direttore del centro nazionale per la crescita Economica dell’università di Pechino (“lo sviluppo nelle regioni orientali si allarga per raggiungere quello occidentale e l’economia cinese ha ancora grandi potenzialità”). O sulle generiche considerazioni relative alla produzione nazionale che “prosegue la sua crescita a doppia cifra”, tanto da minimizzare gli effetti della crisi legata ai mutui subprime americani. E sappiate che il “front runner” di questo esotico sviluppo è stata la Mongolia Interna capace di registrare un più 19 per cento e mostrare “i benefici del programma di sviluppo che la Cina ha previsto per le zone occidentali”. Non disturbiamoli allora con inutili problemi. Non parliamo di diritti umani. I leader di Pechino stanno operando per il bene del Paese. Lasciamoli lavorare.


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