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[28 mar 08]

L'insostenibile noia dei Festival

Venezia, Cannes, Berlino, Locarno, Toronto. Sono le sedi di alcuni dei festival cinematografici più importanti al mondo, i luoghi in cui il cinema fa bella mostra di se, cercando di darsi un’aria intellettuale, ricercata, d’autore. I risultati sono altalenanti, semplicemente perché questa ossessiva ricerca della cultura alta a volte si ridicolizza, diventa parodia di se stessa, raggiunge picchi di snobismo culturale difficilmente comprensibili per un’arte così di massa come il cinema. E proprio per colpa (o per merito, secondo i critici più fini e intellettuali) di questa tendenza, i premi più importanti sono quasi sempre assegnati a film d’autore, spesso incomprensibili, quasi sempre inguardabili. E’ un must, ad esempio, ospitare o premiare pellicole dell’Estremo Oriente. Senza un regista coreano o cinese il festival non ha senso, non è cosmopolita, non dà spazio alle sensibilità artistiche e raffinate della cinematografia asiatica. Zhang Yimou, regista cinese di capolavori assoluti come Lanterne rosse, Hero o La foresta dei pugnali volanti, è senza dubbio il più noto al grande pubblico. Ma qualcuno ci sa parlare della cinematografia di Jia Zhang-ke (vincitore del Leone d’Oro nel 2006), Wang Quan An (Orso d’Oro a Berlino nel 2007), Shuo Wang (Pardo d’Oro a Locarno nel 2000)? Temiamo di no, a conferma del fatto che i Festival cinematografici celebrano un rito chiuso, tra pochi eletti, senza coinvolgere il grande pubblico. All’esasperato (ed esasperante) snobismo di celluloide, gli organizzatori degli happening sopperiscono con le presenze di grandi star che fungono da specchietto per le allodole. Migliaia di persone si riversano sulla Croisette o al Lido per vedere i Brad Pitt, i Tom Cruise e le Nicole Kidman. Scattata la foto di rito (magari a centinaia di metri di distanza), i cinefili tornano a casa, infischiandosene dell’ultimo capolavoro (o presunto tale) di questo o quel cineasta asiatico.

Negli ultimi anni, solo la Festa del Cinema di Roma ha provato a cambiare la situazione. La manifestazione capitolina, voluta dal cinefilo sindaco Walter Veltroni, ha affidato l’assegnazione dei premi a una giuria popolare, ovviamente composta da appassionati, cercando di scongiurare i finali annunciati degli altri festival, con nomi impronunciabili alla ribalta e scarso interesse da parte del grande pubblico. Nel 2006, prima edizione dell’happening romano, l’operazione è miseramente fallita: premio al semisconosciuto regista russo Kirill Serebrennikov e tanti saluti all’attesa “operazione cinema di massa”. Lo scorso anno, invece, le cose sono andate diversamente: ha vinto Juno, film americano di Jason Reitman, campione di incassi al botteghino, pellicola intelligente ma non stucchevole, riuscita senza essere noiosa.

Per fortuna c’è il Sundance Film Festival, che si svolge a Park City (Utah). Dedicato al cinema indipendente, è stato ideato e organizzato da Robert Redford. Filtrando l’ovvia tendenza liberal (a volte eccessiva e fastidiosa), si tratta di un appuntamento imperdibile per quegli appassionati che vogliono scovare piccoli e grandi gioielli nascosti. Ricercatezza, finezza intellettuale, risvolti sociali e politici: c’è tutto quello che si può trovare a Venezia, Cannes o Berlino. Con una sola differenza sostanziale: il Sundance si preoccupa di selezionare e valorizzare film di valore che possono piacere al grande pubblico. Niente nomi astrusi ad ogni costo, niente noiosissimi e lunghissimi polpettoni. Nello Utah si celebra il vero cinema intelligente, che si offre alla gente senza steccati né snobismi di maniera. Non stupisce, dunque, che proprio i giovani sono i più grandi frequentatori e sostenitori dell’appuntamento americano. Mentre a Venezia, Cannes e Berlino sfilano ministri in smoking (che magari non sono mai andati al cinema) che applaudono i noiosi film di cinesi, coreani, iraniani e giapponesi, a Park City un esercito di giovani appassionati in jeans e maglietta dà i voti al cinema del futuro. Gli organizzatori dei grandi festival internazionali difficilmente riusciranno a capire i loro errori e a porvi rimedio. A meno che un coraggioso e solerte spettatore non salga improvvisamente sul palco della premiazione e parafrasi il fim vincitore con le liberatorie parole che il ragionier Ugo Fantozzi dedicò alla Corazzata Potemkin.

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