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Leader in Tv: i giornalisti sprecano l'occasione
di STEFANO CALICIURI

[02 apr 08] Il confronto tra Veltroni e Berlusconi è andato in onda ieri sera in diretta dagli studi delle Tribune Parlamentari di Saxa Rubra. Una formula semplice semplice: una giornalista moderatrice (Giuliana Del Bufalo, brava nel porre domande spicciole, ma forse anche distratta dalla partita di Champions League), quattro giornalisti “domandatori” (Mauro Mazza, Gianni Riotta, Stefano Folli, Marcello Sorgi), due leader che si sono alternati, a parità di tempo, sulla poltrona degli intervistati, senza però mai incrociarsi. Berlusconi ha puntato sulla pacatezza: non ha mai citato la parola “comunismo”, tanto meno ha affondato colpi di spada contro l’avversario, al contrario delle campagne elettorali degli anni precedenti. Ha rimarcato l’importanza di non disperdere il voto, ha insistito sull’affaire Alitalia, è stato preciso nell’illustrare tecnicismi e cifre da bilancio statale. Si è dimostrato anche brillante quando nel finale ha salutato i presenti con un “avanti il prossimo, sembra di essere dal dentista”. Dove “il prossimo”, ovviamente, era Walter Veltroni che poco dopo è entrato in studio salutando tutti con un affettuoso “ciao” e chiamando per nome i giornalisti, salvo poi passare alla formalità del “lei” a cronometro acceso. A quel punto, però, la finzione del rapporto era già stata palesata e quindi difficilmente lo spettatore si è potuto immedesimare nel giornalista intervistatore.

Ed in effetti è stato proprio questo il motivo della non riuscita della tribuna elettorale. Più che un’intervista è sembrato un esame universitario, dove il docente pone le domande quasi con noia, conoscendo già le risposte per averle sentite ripetere decine di volte. In politica è sufficiente porre questioni legate al programma ed il gioco è fatto: nessuno è messo in difficoltà, i leader non sbagliano, non fanno gaffes, non ci sono vincitori ma neppure vinti. Eppure sarebbe bastato poco per ribaltare il risultato: scegliere quattro giornalisti “politicamente scorretti” e non “di sistema”. Per movimentare il dibattito e per destare realmente l’attenzione e la curiosità dello spettatore-elettore, sarebbe stato opportuno che qualcuno avesse chiesto a Berlusconi perché insiste sull’italianità di Alitalia, andando contro l’idea di libero mercato che da sempre contraddistingue i suoi discorsi. O ancora, farsi spiegare i criteri adottati nella compilazione delle liste elettorali. A Walter Veltroni, per la verità, solo Mauro Mazza ha posto domande un po’ più “cattivelle”. Due su tutte: dove si prendono i soldi per garantire il salario minimo garantito e perché abbia accettato che Di Pietro presentasse il proprio simbolo (“non sarà forse per debito di riconoscenza?”).

Però, anche in questo caso, si è persa un’occasione per chiedere al leader democratico come faccia a dirsi rappresentante del nuovo che avanza se è da più di un ventennio che è alla ribalta, sia come sindaco di Roma che come ministro della Repubblica. Oppure perché abbia puntato la campagna elettorale sulla speranza e sul futuro, come se nulla abbia a che spartire con il presente, quando il governo attuale è ampiamente rappresentato dal Pd. E ancora: risposta secca, sì o no, all’equiparazione dei diritti civili tra coppie etero ed omosessuali; finanziamento pubblico alle scuole private e cattoliche; introduzione del rischio d’impresa anche alle cooperative. Poteva essere l’occasione buona per conoscere davvero le due proposte politiche e convincere gli indecisi. Ma forse è proprio questo il problema: in politica, spesso, è meglio un presente fatto di certezze che un futuro incerto. E magari all’opposizione.


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