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[24 giu 08]

L'epopea dei Rosinenbomber

Il Douglas C-47 Skytrain sembra ancora in pieno volo, lì in alto, impigliato nei tiranti che lo sostengono sulla terrazza del Deutsche Technikmuseum di Berlino. Scivolando sul barcone lungo il Landwehrkanal, uno dei canali navigabili che intersecano la Sprea, non si può fare a meno di notarlo, immenso, luccicante con quella fusoliera argentata battuta dal sole. Ci si aspetta che sganci ancora una volta pacchi di viveri e sigarette e saponi e dentifrici, o scatole di cioccolato e chewing gum che facevano impazzire i bambini dai volti ancora emaciati dagli stenti del dopoguerra. Il C-47 è un “Rosinenbomber”, come lo chiamarono i berlinesi, un bombardiere d’uva passa. Centinaia e centinaia di Rosinenbomber americani salvarono Berlino Ovest dal blocco sovietico, scattato per affamare la città e farla capitolare una volta per tutte. Correva il 24 giugno 1948. Sono passati sessant’anni.

I tedeschi hanno una predilezione per gli anniversari. I berlinesi ancor di più, e con il carico di storia che la città si porta appresso non passa anno o giorno che non vi sia qualcosa da ricordare. Fra tutti gli anniversari, però, quello del ponte aereo americano che salvò la città dall’assedio resta uno dei più cari. Già cinque anni fa, al cinquantacinquesimo anniversario, le celebrazioni furono imponenti, anche perché coincidevano con un altro appuntamento, il cinquantenario della prima rivolta in un Paese dell’Europa sovietica, quella di Berlino 1953. Quest’anno è anniversario pieno, sessant’anni. Ma siccome il gioco degli incroci resta intrigante, il sessantesimo del ponte aereo si interseca con il quarantacinquesimo della visita di John Fitzgerald Kennedy a Berlino, giugno 1963, due anni dopo la costruzione del Muro. Fu la storica visita dell’“Ich bin ein Berliner” e in quel caso il presidente americano rivolse ai berlinesi spaventati dalla minaccia sovietica anche un’altra frase, rimasta meno famosa: “Se sarà il caso, dirò al generale Clay di tornare qui a Berlino per difendere di nuovo la città”. Il generale Lucius D. Clay era il comandante delle truppe di occupazione americane negli anni del ponte aereo e assisteva al discorso di Kennedy ai piedi del palco. I berlinesi gli dedicarono un coro semplice e affettuoso, come fossero allo stadio: “Clay, Clay!”.

Il blocco sovietico fu la conseguenza della riforma monetaria varata qualche giorno prima nella Repubblica federale di Germania. L’introduzione del marco, che di fatto unificava economicamente i territori occidentali sotto il controllo delle forze alleate, chiudeva la collaborazione fra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale e apriva il confronto ideologico che da quel momento avrebbe diviso in due blocchi l’Europa e il mondo. E ovviamente la Germania e Berlino. Il marco avviò il suo corso anche nel settore occidentale di Berlino e i sovietici ne temettero – a ragione – il potenziale di attrazione verso i cittadini di quella che allora era ancora la zona di occupazione sovietica (e che solo di lì a un anno sarebbe diventata la Ddr). Stalin forzò la situazione, bloccò tutte le strade di accesso a Berlino Ovest, isolò completamente metà città lasciandola al buio.

Gli alleati, dopo aver valutato diverse opzioni, si risolsero per un ponte aereo. Fu la prima, grande vittoria delle potenze occidentali nella Guerra Fredda. Per oltre un anno, dal 25 giugno 1948 fino a fine settembre 1949, centinaia e centinaia di aerei, partendo dagli aereoporti di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, trasportarono a Berlino ogni genere di prima necessità. Il 12 maggio 1949 Stalin tolse il blocco e ammise la sconfitta, i rifornimenti proseguirono fino a settembre, per scongiurare il rischio di un’altra prova di forza. Le cifre restano a memoria di quella epopea: 278.228 voli, 2.326.406 tonnellate di cibo, forniture, macchinari, medicinali tra cui 1.500.000 tonnellate di carbone per il riscaldamento e la produzione di energia elettrica. Nel momento di maggior traffico, atterravano a Berlino uno dopo l’altro 1.398 aerei ogni ventiquattro ore. Fu un successo straordinario e spettacolare.

La storia è però piena di ironia. E il sessantesimo anniversario del ponte aereo cade nell’anno in cui è stata decretata la chiusura di Tempelhof, l’aeroporto che di quell’epopea fu il terminale. Sulla stampa italiana se n’è parlato poco, resta a memoria un articolo di Repubblica che puntava di più sul passato nazista di questo scalo (si sa, i nazisti fanno più notizia da noi, un po’ come i mafiosi da loro). Ma per i berlinesi Tempelhof era e resterà l’aeroporto del ponte aereo (qui l’articolo scritto ad aprile per Alexanderplatz). Ma lo è per tutti i berlinesi? Per quelli dell’ovest e per quelli dell’est? Il sessantesimo anniversario si trascina infatti la polemica che era nata in occasione del referendum fallito di aprile: la memoria del ponte aereo appartiene solo all’ovest o è condivisa da tutti nella città che fu divisa per oltre quarant’anni? I media accendono il dibattito. I giornalisti si trasformano in storici e vanno a ripescare le memorie degli altri: come hanno vissuto quei giorni i berlinesi dell’est, come hanno inciso le diverse propagande nella mentalità dei cittadini, quali margini ci sono per ricostruire il tessuto di una memoria comune e condivisa.

Un punto resta fermo, nei giudizi degli opinionisti di destra e di sinistra: quella lunga catena di aerei ha consentito non solo di salvare dalla fame due milioni di berlinesi ad ovest ma anche di depositare il seme della libertà nel mezzo dell’Europa totalitaria. Quel seme è germogliato, lentamente, rappresentando un simbolo e un esempio che, al di là della retorica della Guerra Fredda, è stato una spina nel fianco del comunismo e un modello per quanti, decennio dopo decennio, hanno potuto prendere coscienza della realtà man mano che le maglie della repressione si allentavano. Il 1989 è figlio di molti passaggi del lungo secondo dopoguerra, da Budapest 1956 a Praga 1968 a Danzica e Varsavia 1982, all’elezione di Papa Woytjla, alla tenacia di uomini diversissimi come John F. Kennedy e Ronald Reagan. Ma tutto cominciò nella notte in cui Stalin chiuse le strade per Berlino e il generale Clay s’inventò i Rosinenbomber. Fu anche una scelta simbolica: gli aerei che qualche anno prima avevano sganciato bombe sulla Germania nazista ora sganciavano viveri sulla Germania che avviava con fatica la sua stagione democratica. Questo seme di libertà deve essere memoria condivisa: per i berlinesi dell’ovest che la conservarono nel 1948 e per quelli dell’est che la ritrovarono nel 1989.

 

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