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[25 giu 08]
Il Dpef scommette sulla crescita

Giulio Tremonti anticipa la legge finanziaria, superando la liturgia che voleva il debutto delle idee, sulla politica economica di breve termine, prima dell’estate e rimandava la sua conclusione, in una concitata e difficile maratona, tra Natale e Capodanno.  Ridimensionare il Dpef, il documento di programmazione che veniva licenziato tra giugno e luglio, e sostituirlo con una legge finanziaria triennale, e non annuale, licenziata in meno di dieci minuti dal governo in carica, rappresenta davvero una innovazione nel governo dell’economia pubblica.

E’ necessario, in altre parole, che lo Stato si dia una regolata e ridimensioni la sua spesa corrente, ne riqualifichi il contenuto verso la creazione di capitale fisso sociale, cerchi di dare questa stretta deflattiva al sistema senza colpire, parallelamente, i ceti più poveri e più deboli. C’è una opzione per la crescita, che si legge nelle scelte di macroeconomia (ipotizzare un rigoroso rientro dall’inflazione) e nella politica fiscale (che penalizza chi produce la tassa sui consumi energetici, rivoluziona i rapporti tra i prezzi e muta la distribuzione del reddito). Ma c’è anche una opzione per difendere il potere di acquisto dei deboli e per offrire - anche questa è una spinta verso la crescita - a salariati ed imprenditori la possibilità di detassare il compenso delle ore di lavoro straordinario: per aumentare la produttività del lavoro e restituire capacità di acquisto ai salari, colpiti dalla tassa petrolifera e da quella sui prodotti alimentari ma anche dal loro impatto sulla dinamica dei prezzi interni.

C’è anche un effetto di lungo periodo in questa diversa opzione sulle politiche della contrattazione collettiva: rinunciare all’egualitarismo e premiare le differenze. Assicurare il transito da una posizione lavorativa all’altra ma non garantire un lavoro a tempo indeterminato, sempre nella medesima posizione e nella medesima impresa. C’è la scommessa di dare al mercato il compito di offrire ricchezza e benessere alla popolazione. Essendo chiaro che la produttività del lavoro, la dimensione delle forze di lavoro in relazione a quella della popolazione attiva e la quantità di occupati, rispetto alla popolazione attiva, sono le tre variabili capaci, moltiplicate tra loro, di moltiplicare la ricchezza, sostenendo la crescita. Se e quando la crescita riuscirà a manifestarsi - grazie anche ad una deflazione macroeconomica che limita la spesa corrente, che protegge gruppi sociali identificati e sostiene la creazione di capitale fisso sociale, che alimenta e sostiene essa stessa la crescita del sistema - allora ci sarà spazio per una giustizia sociale maggiore, che redistribuisca dalle rendite ai redditi più compressi, quelli dei pensionati, degli anziani, delle persone precarie e fragili o che non sono neanche entrate sul mercato del lavoro.

Per due secoli, gli ultimi del secondo millennio, il mercato era la leva dei potenti e dei forti e lo Stato, paternalista o sovietico che fosse, lo scudo dei deboli e degli indifesi. Sembra proprio che questa divisione dei ruoli e delle funzioni di tutela non sia più attuale e che il governo abbia provato a metterla in discussione. I fallimenti del mercato non generano conseguenze catastrofiche sulla libertà personale e sul benessere diffuso, come capita nel caso in cui falliscono le pretese dirigistiche delle burocrazie pubbliche. La competizione, se difesa e considerata una sorta di bene pubblico, aiuta il merito e la competenza e difende, di conseguenza, coloro che scommettono in prima persona sul proprio talento, le loro capacità ed il risultato del proprio lavoro. Le politiche pubbliche aiutano spesso i monopolisti a rafforzare le proprie pozioni e tutelano coloro che, essendo forti dell’appartenenza ad una casta privilegiata od ad una corporazione, arroccata sui propri privilegi, riescono ad impedire che il cambiamento ribalti ruoli e gerarchie nella piramide sociale.

Esistono mercati che non vivono parallelamente ad un regime democratico: come avviene nella Repubblica popolare cinese. Ma esistono fallimenti della democrazia, come avviene da molti anni nelle regioni del Mezzogiorno italiano, che impediscono al mercato di funzionare perché la vita economica si risolve esclusivamente nella gestione delle risorse pubbliche ed esse diventano strumenti di cattura del consenso piuttosto che leve della crescita. Ed in questo caso fallisce anche il mercato politico. Confermandoci che tra mercato e democrazia è la seconda ad avere più spesso la peggio, ed è il primo ad offrire ad ogni individuo la possibilità di migliorare la propria posizione sociale e, così facendo, migliorare anche la dimensione della ricchezza disponibile per offrire alla comunità una qualità migliore della vita e dei consumi collettivi. Bisognerebbe rompere la convenzione che vuole il bipartitismo attestato sulla interpretazione bipolare tra destra e sinistra: nell’accezione tradizionale che vede lo Stato (buono) effetto inevitabile della sinistra ed il mercato (cattivo) conseguenza del dominio della destra sull’ordine democratico. Altrimenti si rischia di non capire quanto sia già cambiato il mercato mondiale e come e quanto dovrebbero cambiare, ora, il mercato italiano e quello europeo.


 

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