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Petrolio alle stelle, mercato o speculazione?
Il costo del greggio continua a salire e si accende il dibattito sulle cause di questa impennata. E intanto il mercato energetico cambia rapidamente.
di FEDERICO PUNZI

[08 lug 08]
Uno degli aspetti dell’attuale crisi economica internazionale più dibattuti ai massimi livelli, tra i ministri delle Finanze dei Paesi del G-8 e tra le più alte autorità finanziarie, è l’impennata dei prezzi del petrolio. Cosa sta succedendo? Ci sono dei reali mutamenti del mercato, le riserve si stanno esaurendo, oppure si tratta di semplice speculazione? Innanzitutto, alcuni dati. Nell’International Energy Outlook 2008, un rapporto annuale del Dipartimento Usa per l’Informazione energetica, sono contenute interessanti previsioni. Il consumo energetico mondiale crescerà del 50 per cento tra il 2005 e il 2030. Dell’85 per cento crescerà il consumo dei Paesi in via di sviluppo non-Ocse. I prezzi del petrolio rimarranno alti. Un qualche sollievo lo porteranno le nuove produzioni da Azerbaijan, Brasile, Canada, Kazakhistan e Stati Uniti, ma nel lungo periodo l’offerta è destinata a rimanere esigua. E’ ormai nota l’allarmante previsione di Goldman Sachs, secondo cui entro la fine dell’anno un barile potrebbe arrivare a costare 200 dollari, esattamente come aveva minacciato Osama bin Laden nel 2001.

Di fronte a questa prospettiva gli analisti si dividono tra chi indica nelle trasformazioni del mercato le cause principali e chi invece denuncia fenomeni speculativi. In Italia la questione è motivo di schermaglie tra il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. In un recente editoriale sul Corriere della Sera, l’economista Francesco Giavazzi ha scritto che l’attuale crisi petrolifera “ha poco a che vedere con la globalizzazione, le banche, la speculazione”, mettendo in guardia dall’illusione che la colpa possa essere fatta ricadere su un qualche “untore”, evidentemente mostrando un intento polemico nei confronti del ministro Tremonti, il quale tende a intravedere dietro la crisi un malvagio complotto ordito da un ristretto e oscuro gruppo di finanzieri e tecnocrati. Questa visione del mondo della finanza dimostra una particolare concezione dei mercati e dei loro meccanismi di funzionamento. La speculazione non è qualcosa di organizzato a tavolino da poche diaboliche menti, ma deriva per lo più dal comportamento spontaneo di migliaia di singoli attori economici. In un paper di Ariel Cohen e Owen Graham per la Heritage Foundation, dal titolo “What Is Driving the High Oil Prices?”, si parla di una vera e propria “tempesta” di fattori che stanno facendo salire i prezzi del petrolio. La tesi dei due esperti è che siamo di fronte a mutamenti strutturali della domanda e dell’offerta, mentre la speculazione agirebbe come fattore solo congiunturale.

Prima di tutto, sta cambiando la domanda. Non è più trainata dalle economie sviluppate, ma da Cina, India e altri Paesi in via di sviluppo, compresi gli stessi produttori. Le loro dimensioni e i loro ritmi di crescita stanno trasformando i mercati globali dell’energia. Si calcola che da oggi al 2030 Cina e India rappresenteranno il 70 per cento della domanda globale di petrolio. Le loro importazioni saliranno dai 5,4 milioni di barili al giorno nel 2006 ai 20 nel 2030, superando le importazioni di Giappone e Stati Uniti messi insieme. Il loro fabbisogno energetico continuerà a crescere a causa dell’aumento dei redditi, del boom dell’edilizia, dell’uso degli elettrodomestici e degli autoveicoli (la Cina sorpasserà gli Usa nel 2015), ma anche a causa dello sviluppo dell’industria pesante e degli enormi progetti di infrastrutture, esattamente come accadde per gli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso e per Germania e Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma non solo Cina e India. A far crescere la domanda sono anche i Paesi esportatori del Golfo Persico – secondi solo a Cina e India – a causa del boom dei progetti di costruzione e della crescita della popolazione. Secondo Edward Morse, della Lehman Brothers, almeno un milione di barili la scorsa estate non ha raggiunto i mercati mondiali a causa del consumo crescente da parte dei Paesi produttori. E il fenomeno si ripeterà questa estate. Alcuni dei maggiori Paesi esportatori, inoltre, si stanno trasformando in importatori al netto: tra di essi Indonesia e Gran Bretagna. Anche Algeria, Malesia, Messico, e Iran sono su questa strada.

Ma il mercato si sta trasformando anche dal lato dell’offerta. I vecchi campi producono meno e i nuovi non saranno abbastanza rapidamente in grado di sostituirli garantendo l’esistente capacità produttiva. Ma soprattutto, i piani per accrescere l’offerta attraverso una maggiore esplorazione e produzione da oggi al 2030 si scontrano con elevati rischi geopolitici e con le politiche energetiche anti-concorrenza dei Paesi produttori. Un terzo della capacità di produzione irachena è fuori dal mercato. Se la situazione della sicurezza migliorasse, se le diverse etnie trovassero un accordo sulla suddivisione dei proventi petroliferi e il governo firmasse accordi con le compagnie straniere per i diritti di sviluppo, l’Iraq potrebbe accrescere la propria produzione dagli attuali 2,4 milioni di barili a 5 e oltre, entro 5 anni o meno. L’Iran è fermo a 3 milioni di barili, metà di quanto produceva sotto lo Shah, a causa dell’incapacità del regime dei mullah di attrarre capitale privato e tecnologia avanzata, e di offrire un contesto di trasparenza e Stato di diritto per gli investimenti. Per non parlare delle sanzioni internazionali a causa del controverso programma nucleare. Un quarto della capacità produttiva della Nigeria non è disponibile a causa dell’instabilità sociale nel delta del fiume Niger e Chavez sta distruggendo il settore petrolifero del Venezuela con la sua politica di nazionalizzazioni, che tiene almeno un milione di barili fuori dal mercato.

In generale, il problema è che i paesi esportatori privilegiano le compagnie petrolifere nazionali (NOCs), mentre negano uguali trattamenti alle compagnie internazionali (IOCs), restringendo così gli investimenti stranieri e l’accesso alle risorse. Un dato per smentire molti luoghi comuni sulle multinazionali. Le 13 nazioni dell’Opec controllano il 76 per cento delle riserve globali; aggiungendo la Russia si arriva all’83 per cento. Multinazionali come ExxonMobil, BP, Chevron, ConocoPhillips, e Shell controllano solo il 3,8 per cento delle riserve. L’Opec rifiuta di aumentare la produzione sostenendo che il mercato è “bilanciato” e che “non c’è alcuna crisi dell’offerta”. La realtà è diversa, secondo gli esperti della Heritage Foundation. Gli esportatori Opec e non-Opec insistono nel garantire lo sfruttamento dei nuovi progetti di petrolio e gas alle loro compagnie nazionali, escludendo le compagnie internazionali, che attirano gli investimenti e possiedono le competenze necessarie per portare sul mercato ulteriori quote di produzione. Ignorano o si oppongono allo sviluppo di una moderna legislazione e di un sistema trasparente dove la supervisione del settore sia affidata a personale elettivo sotto lo sguardo di media indipendenti. Si tratta di un trend in crescita: nei prossimi 20 anni il 90 per cento della nuova offerta di idrocarburi giungerà da Paesi che privilegiano l’accesso da parte delle compagnie nazionalizzate. In questo modo i prezzi possono solo salire.

Queste, dunque, le cause strutturali dell’impennata dei prezzi del petrolio, secondo Cohen e Graham. Ma cosa possono fare le compagnie internazionali e i Paesi consumatori? Possono cercare di ridurre i prezzi esercitando pressioni sui Paesi Opec e non-Opec perché aprano alle compagnie internazionali l’accesso allo sviluppo delle loro riserve petrolifere, in un contesto di Stato di diritto e mercato concorrenziale, così da aumentare investimenti e produzione; possono ridurre i rischi geopolitici; promuovere lo sviluppo di tecnologie per l’efficienza e il risparmio energetico (per esempio, programmando la conversione del trasporto privato e pubblico dai motori a combustione ai motori elettrici o ibridi). Eppure, nel lungo periodo, la crescita della domanda, l’offerta inadeguata, e le scelte nazionaliste dei governi dei Paesi produttori contribuiranno a rendere il petrolio una risorsa sempre più problematica. Il petrolio, spiegano i due esperti, è una risorsa limitata prodotta e scambiata su un mercato imperfetto, parzialmente “cartellizzato”, mentre la domanda è rigida. E’ la ricerca che può trovare soluzioni più economiche per i trasporti, offrire alternative al petrolio contribuendo a ridurre il suo prezzo. Cohen e Graham ammettono che probabilmente anche la speculazione gioca un ruolo. Se di solito il mercato petrolifero è dominato da soggetti che comprano e vendono per consumare, recentemente potrebbe aver attratto altri investitori, manager di hedge funds e fondi pensione, che avrebbero trasferito liquidità dal dollaro ai futures petroliferi e ad altri derivati a nome dei loro clienti, cercando di proteggere gli investimenti dalla svalutazione della moneta americana e dall’inflazione. La maggiore domanda di futures petroliferi avrebbe fatto salire i prezzi. La caduta del dollaro potrebbe aver incoraggiato la speculazione contribuendo a far crescere i prezzi del petrolio, ma è piuttosto la consapevolezza dei suddetti trend nell’offerta e dell’esplosione della domanda che sta portando gli investitori a mettere il loro denaro nei futures petroliferi. Comunque, anche al netto della speculazione, i prezzi elevati sembrano riflettere l’attuale e futuro rapporto tra offerta e domanda di petrolio, concludono i due analisti.

Un manager di hedge funds ha di recente dichiarato al Congresso Usa che negli ultimi 5 anni la domanda di futures petroliferi da parte di speculatori ha quasi raggiunto i livelli di crescita della domanda cinese. Ma altri analisti finanziari difendono gli investitori bollati come “speculatori”, puntando piuttosto l’indice sull’offerta, che aumenta in modo insufficiente per rispondere alla crescita della domanda. La produzione della Russia, per esempio, non sta rispettando le previsioni di crescita. Secondo Jeffrey Harris, economista a capo della Commodity Futures Trading Commission, ci sono “poche prove dal punto di vista economico per dimostrare che i prezzi vengano sistematicamente tenuti alti dagli speculatori”. E’ la solita “caccia alle streghe”, secondo Alan Reynolds, del libertario Cato Institute, che critica la tendenza dei politici – compresi i due candidati alla presidenza Usa, McCain e Obama – a criminalizzare gli speculatori. Secondo l’autore, da quando è stata superata quota 100 dollari non conviene più scommettere sull’aumento dei prezzi piuttosto che sulla loro discesa. Il prezzo delle “call option” potrebbe risultare troppo alto e l’opzione sarebbe carta straccia. Né il volume delle contrattazioni dei futures di per sé può aver fatto salire i prezzi dei beni. In altre parole, gli speculatori tenderebbero piuttosto a scommettere che il prezzo si abbassi, non che salga. Non sono loro i “cattivi”, se invece continua a salire. “Non c’è alcun mistero” dietro la crescita dei prezzi del petrolio, secondo Reynolds. Crescono troppo e troppo velocemente per il boom della domanda, anche se ora gli analisti di JPMorgan stimano che il prezzo del petrolio scenderà fino a 85 dollari al barile tra il 2009 e il 2011. E anche quelli di Goldman Sachs, che di recente aveva previsto un rincaro fino a 200 dollari, ora parlano di 75 o anche meno nel lungo periodo. “La tentazione di accusare gli speculatori è una perdita di tempo come accusare le compagnie petrolifere. Gli americani vogliono più petrolio e più gas, non più aria fritta dai politici”, conclude sarcastico Reynolds.


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