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[02 lug 08]
Ma sarà davvero inflazione?

Hanno ragione gli arcigni banchieri tedeschi, che vogliono aumentare i tassi di interesse a tutti i costi, anche rischiando la stagnazione della già lenta economia europea, o fanno bene gli eredi di Greenspan, e colleghi di Bernanke, che vogliono lasciare i tassi ad un livello compatibile con la ripresa degli investimenti e, dunque, con una crescita sostenuta dell’economia americana e delle economie dei Paesi che si riconoscono nel dollaro come numerario della propria ricchezza? Se ne sentono di opinioni diverse su questo interrogativo. Ma è anche vero che, sull’aumento dei prezzi, e sul fatto che esso sia una manifestazione della mala pianta dell’inflazione, si sentono anche delle grida di allarme troppo generiche. Siamo proprio sicuri che sia in atto un vigoroso processo inflazionistico? Vediamo qualche numero, estratto dalle ultime rilevazioni dell’Istat, il nostro istituto nazionale di monitoraggio e controllo quantitativo della dinamica economica.

Osserviamo la tendenza di lungo periodo e poi confrontiamola con il dato congiunturale. Fatto pari a 100 il livello dei prezzi nel 1995, l’indice generale dei prezzi al consumo si quota a 137 nel giugno del 2008. Mediamente i prezzi sono aumentati del 37 per cento in tredici anni. Questa media presenta una certa variabilità nelle sue componenti. I ristoranti, ad esempio, quotano i propri listini a 157, Le comunicazioni a 69. Ricordate quando i telefoni erano razionati e si dovevano usare le linee duplex? Le persone anziane, che erano adulte negli anni Settanta, se lo ricordano. Ora ci sono più telefoni e le comunicazioni costano molto meno. Innovazione tecnologica e competizione hanno dato una mano ai consumatori ed un colpo ai profitti dei monopolisti di una volta. Ma questo divario ci indica anche un’altra cosa rilevante. Oggi l’incremento di valore di un pranzo vale due volte il ridotto valore di una telefonata; nel 1985 essi avevano il medesimo valore relativo. Facile che si facciano più telefonate e che le famiglie monoreddito frequentino meno i ristoranti, almeno quelli più cari. In quella media ci sono anche i McDonald’s, ricordiamocelo.

I prezzi delle abitazioni - inclusi gas, energia ed acqua – arrivano a 157; i trasporti a 148; gli alimentari e l’abbigliamento solo a 135. Anche in questo caso il reddito delle famiglie meno ricche verrà assorbito dalla domanda rigida di abitazioni e, nonostante il minore incremento medio degli alimentari e dell’abbigliamento, i supermercati sostituiranno i negozi tradizionali perché offrono un rapporto tra prezzi e beni compatibile con la necessità di dover prima pagare la casa, le facilities ed i trasporti. Questi sono i trend di lungo periodo: guardiamo le variazioni rispetto all’anno scorso. L’indice generale non arriva al 4 per cento. Trasporti, abitazioni ed alimentari sforano il 6. La ristorazione aumenta solo del 2,5 per cento e le comunicazioni scendono del 2,3. L’innovazione non tradisce i consumatori; ma chi aveva troppo gonfiato i prezzi, nel decennio precedente, incontra un limite di domanda effettiva: osservate la frenata della ristorazione. Ma diamo anche uno sguardo ai prezzi di produzione, quelli dei settori industriali. La base Istat, in questo caso, è il 2000, che quota 100. I prodotti petroliferi vanno a 183 mentre abbigliamento e prodotti in pelle e cuoio restano a 110.

Insomma, sembra evidente che non siamo di fronte ad un incremento generalizzato ed uniforme nel livello dei prezzi monetari. Questa è la definizione di inflazione: una crescita uniforme e generalizzata dei prezzi espressi in moneta. Qui è evidente che, invece, stanno cambiano i prezzi relativi: cioè il valore di un litro di benzina rispetto a quello di un chilo di pane. Come tutti possono vedere. In questi casi i mercati fanno il loro lavoro: spostano tecnologie e consumi secondo il rendimento delle prime ed il potere di acquisto delle famiglie, rispetto al tipo di consumi cui esse possono accedere. Bisognerebbe capire quanto, delle dinamiche che si vedono in giro, sia inflazione e quanto modificazioni nel valore relativo delle merci che i mercati trasformeranno in un cambiamento della struttura della produzione, in relazione al diverso potere di acquisto delle famiglie, i redditi delle quali sono anche ridimensionati dalla quota di inflazione, che esiste ma non è l’unica variabile in gioco. Non si tratta, dunque, di aumentare o non aumentare i tassi: ci vuole una politica per la stabilità del valore della moneta e contro l’inflazione ma ci vuole anche una politica per la crescita, che faccia aumentare la ricchezza ed il benessere delle famiglie. Non restare fermi ma non strozzare la crescita è la strada giusta. Più americana che europea, detto con franchezza.

 

 

Approfondimento
Il rapporto Istat sui prezzi al consumo
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