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La rivoluzione blairiana del ministro Gelmini
Aria nuova a viale Trastevere: il ministro dell'Istruzione punta su meritocrazia e competizione per rilanciare l'università italiana e arginare la fuga di cervelli.
di FEDERICO PUNZI

[20 giu 08]
Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, si è presentata per la seconda volta in due settimane dinanzi alla commissione Cultura della Camera. Martedì mattina oggetto della sua relazione programmatica è stata l’università. E’ un approccio decisamente blairiano quello che emerge dalle risolute parole della Gelmini. Come per la scuola, anche per l’università il trinomio “autonomia, valutazione, merito” costituirà il cardine della sua azione di governo. Riguardo il rapporto tra pubblico e privati, la Gelmini ricorda che “la natura pubblica del servizio erogato non presuppone la proprietà statale dei soggetti erogatori”. Per lo Stato prefigura il passaggio dal ruolo di gestore al ruolo di controllore. Il ministro ricorre alle parole di Dario Antiseri per spiegare il concetto di competizione e al libro “Meritocrazia”, di Roger Abravanel, per quello di merito. Alle università, osserva, “si è data l’autonomia senza chiedere conto dei risultati”. Ma responsabilità significa “essere premiati o sanzionati per le scelte vincenti o sconvenienti che si sono operate”. Promette, quindi, di voler “valutare i risultati più che le procedure”, nello spirito delle delivery unit concepite da Tony Blair.

Il ministro ha fatto presente che l’Anvur, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca, è “una costosissima struttura ad alto tasso di burocrazia e rigidità” e che dunque “occorre rivederne la disciplina, per un sistema integrato di valutazione che vincoli il finanziamento ai risultati, incentivando l’efficacia e l’efficienza dei programmi di innovazione e di ricerca, alla qualità della didattica, alla capacità di intercettare finanziamenti privati ed europei, al tasso di occupazione dei laureati coerente con il titolo di studio conseguito”. Ma la valutazione dovrà essere effettuata anche dal basso, ha avvertito il ministro, dalle famiglie e dagli studenti. “Le singole università dovranno fornire sui loro siti web, come avviene nel mondo anglosassone, i dati sugli sbocchi professionali dei loro studenti, sulla produzione scientifica dei loro docenti e ricercatori e sulla customer satisfaction degli studenti”. Bisogna, però, tenere conto anche di indicatori come “la capacità di utilizzare finanziamenti comunitari, il grado di apertura internazionale, il numero dei brevetti”. Nei giorni scorsi il ministro aveva risposto positivamente a Francesco Giavazzi, che in un editoriale sul Corriere della Sera aveva suggerito di abbandonare il “tabù del concorso pubblico” per “un sistema in cui le assunzioni vengono decise da chi poi sopporta le conseguenze di un’eventuale decisione sbagliata”. Secondo Giavazzi, “l’errore, nell’università, non è stata l’abolizione dei concorsi nazionali e la loro sostituzione con concorsi locali. L’errore è non aver accompagnato questa riforma con un serio sistema di valutazione. I presidi di scuola e le facoltà devono poter assumere gli insegnanti che ritengono più adatti, ma se sbagliano devono subire le conseguenze dei loro errori. Altrimenti, come accaduto nell’università, assumeranno i raccomandati o i figli e i nipoti dei colleghi”.

Il ministro Gelmini pensa ad un reclutamento “a doppio filtro”: procedure “snelle, credibili, che assicurino meritocrazia e autonomia dei singoli atenei” nella selezione di professori e ricercatori. “Occorre – ha spiegato – una verifica nazionale di idoneità riconosciuta da parte della comunità scientifica nel suo complesso. All’interno di una lista di idonei, tra cui anche studiosi che lavorano all’estero, sia italiani che stranieri, le università sceglieranno poi autonomamente lo studioso più capace nella produzione scientifica, più adatto a richiamare finanziamenti dalle imprese e iscrizioni da parte degli studenti. Il sistema meritocratico e di trasparenza con il quale verranno erogati i fondi pubblici, basato sui risultati di ricerca e di didattica, indurrà necessariamente i singoli atenei ad operare scelte responsabili e scoraggerà il più possibile pratiche clientelari”. Il merito e la responsabilità, oltre ad avere un peso maggiore nei meccanismi di reclutamento, ha anticipato il ministro, “concorreranno anche a determinare una parte della retribuzione del professore e del ricercatore. Il contratto nazionale fisserà solo la retribuzione di base, il resto sarà il frutto di una trattativa tra atenei, docenti e ricercatori fondata su criteri meritocratici”.

Per rendere più appetibile la professione della ricerca nel nostro Paese e porre un argine al fenomeno della “fuga dei cervelli”, il ministro ha annunciato l’intenzione di incrementare le retribuzioni dei ricercatori, mentre ha già dato il via libera ad un aumento di 240 euro mensili delle borse di studio per i dottorati di ricerca. Per quanto riguarda il “welfare studentesco”, la Gelmini ha promesso “nuove residenze per studenti fuori sede e un’erogazione più facile e di maggiore entità dei prestiti d'onore”. Nel nostro Paese, ha osservato il ministro, “i finanziamenti pubblici per la ricerca sono appena sotto la media Ocse, mentre per quelli privati siamo al penultimo posto. La percentuale di investimento in ricerca in Italia è pari all'1,09 per cento del Pil contro una media Ocse del 2,26 per cento”. Occorre quindi “incentivare il finanziamento privato, il ruolo di fondazioni bancarie, no profit, associazioni di categoria, e prevedere meccanismi di agevolazioni per le piccole e medie imprese, tramite crediti di imposta e defiscalizzazioni”. Infine, la Gelmini si è posta l'obiettivo di razionalizzare e “spoliticizzare” gli enti di ricerca: “I loro vertici saranno nominati in una rosa proposta da appositi search committee composti da esperti di indiscussa fama e prestigio e rigidamente vincolati, nel loro mandato, al raggiungimento di obiettivi”. Le intenzioni sono delle migliori, auguriamo al ministro Gelmini di ottenere risultati importanti per una riforma blairiana della scuola e dell’università di cui il Paese ha assolutamente bisogno come fattore strategico per tornare a crescere.


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