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IL FUTURO DEL MONDO SI GIOCA SULL'ENERGIA
Aumenti dei prezzi e tensioni in Medio Oriente: i grandi del mondo affrontano la questione energetica. E si punta sul nucleare per affrancarsi dal greggio.
di BRUNO PAMPALONI

[11 giu 08]
E’ tempo di redde rationem in campo energetico? La settimana scorsa a Tokyo (e forse mai come prima), infatti, il vertice del G8 sull’energia - esteso a Cina, India e Corea del Sud - si è espresso in maniera molto preoccupata per la corsa inarrestabile del petrolio. A metà maggio, inoltre, George Bush era volato in Arabia Saudita per ribadire che gli elevati prezzi del greggio stanno mettendo in difficoltà l’economia statunitense. La visita del presidente americano è stata diversamente commentata da chi ne ha voluto sottolineare i successi (Riyadh ha precisato infatti che aumenterà la produzione di petrolio “in quantità tale da soddisfare le richieste dei consumatori”) e da chi, invece, ha scelto di minimizzare le concessioni saudite (“appena” 300.000 barili al giorno e l’affermazione che il reame non ritiene l’aumento della produzione petrolifera il miglior “modo per arrestare la crescita del greggio”). Di fatto, immediatamente informato delle nuove quote promesse da Riyadh, il presidente statunitense ne ha evidenziato l’esiguità e la non corrispondenza agli impegni sottoscritti. Ricordiamo che, da parte americana, tali accordi prevedono la protezione “dal terrorismo delle infrastrutture del reame” e la “cooperazione nel nucleare civile”.

Insomma, i successi di Bush per qualcuno restano ancora dubbi. Eppure, qualche effetto concreto il suo viaggio deve pur averlo sortito considerato che, meno di un mese fa, proprio l’Opec aveva definito “adeguata” l’offerta di petrolio. Non solo. Quasi contemporaneamente all’incontro Usa-Arabia Saudita, l’organizzazione dei produttori si è impegnata per un extra di 5 milioni di barili di greggio al giorno entro il 2012. Da sommare  - sia ben inteso - agli incrementi già previsti. Non va neppure scordato che, sempre un mesetto addietro, i sauditi avevano risposto picche a chi pretendeva che fossero nuovamente aperti i loro rubinetti. Sullo sfondo di tutta questa complessa vicenda restano i rapporti di forza in seno all’Opec e gli sviluppi regionali in campo nucleare. Non sembra inverosimile individuare nelle diplomazia americana il tentativo di spaccare l’organizzazione dei Paesi produttori di petrolio. Né - tantomeno- appare del tutto azzardato immaginare che i recenti accordi energetici preparino un’indipendenza militare dei sunniti-wahabiti di Riyadh volta a fronteggiare la minaccia sciita di Teheran.

Si tratterebbe comunque di una “sovranità limitata” perché supervisionata da Washington, il cui esercito resta il maggior deterrente contro il fondamentalismo islamico nell’area mediorientale. Poco prima dell’arrivo di Bush nel Golfo, il presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono aveva comunicato alla stampa che il suo Paese avrebbe potuto incrementare la produzione di greggio e uscire dall’Opec. Quasi in contemporanea alla visita di Bush in Israele, l’Iran (sciita) annunciava tagli alle proprie quote di export. Il Kuwait (a maggioranza sunnita) immediatamente si impegnava così ad aumentare l’estrazione di petrolio fino a 3 milioni di barili al giorno entro il 2009 (dai 2 milioni e 600 mila attuali). Anche gli Emirati Arabi (80 percento di sunniti) dichiaravano un’estrazione cresciuta del 4,33 per cento nel mese di aprile (2 milioni e 650 mila barili al giorno). Nel frattempo Teheran smentiva se stessa e confermava il rispetto delle quote stabilite in sede Opec. Poi l’Algeria, tramite il ministro dell’Energia Chakib Khelil, annunciava investimenti per 45 miliardi di dollari volti ad aumentare la produzione di petrolio e di gas.

Quanto tutto ciò possa servire davvero ad arrestare il surriscaldamento dei prezzi resta dubbio. La speculazione e i Paesi emergenti, infatti, giocano un ruolo purtroppo cruciale e, ad oggi, decisivo. Tuttavia nelle due ultime due settimane la corsa ininterrotta al rialzo del barile si era arrestata anche se, in questi ultimi giorni, sembra riprendere vigore. D’altra parte, la tendenza verso l’aumento delle quote è risultata evidente dall’Exhibition Middle East Petrotech 2008 tenutosi Manama (Bahrain) a fine maggio. Per l’occasione la compagnia petrolifera saudita Saudi Aramco ha confermato l’espansione dei prodotti di raffinazione di base (in crescita di 3 milioni di barili al giorno entro il 2015, a circa 10 milioni di barili.) Nel 2008 e nel 2009, la regione del Golfo aggiungerà inoltre 20 milioni di tonnellate all’anno di prodotti chimici. Nei piani di Saudi Aramco è previsto anche il raddoppio della raffineria di Ras Tanura Refinery (per raggiungere quasi un milione di barili al giorno) e la costruzione di un’altra in joint venture destinata all’export. Ognuna di queste raffinerie dovrebbe essere operativa nel 2012, con una capacità di 400mila barili al giorno. Sarebbe, inoltre, pronto un megaprogetto per il campo petrolifero di Khurais (per toccare 1,2 milioni barili al giorno di greggio leggero).

In tutte queste operazioni Saudi Aramco investirà circa 50 miliardi di dollari in 10 anni. La produzione di Khurais andrebbe ad aumentare la capacità del Regno (stimata, nel 2007, a 11,3 milioni di barili al giorno). Lo stabilimento di Manifa aggiungerà 900mila barili al giorno, quello di Khursaniyah 500mila e quello di Shaybay 250mila. Ma il vero punto centrale attorno a cui si snoda tutta la questione resta il programma nucleare iraniano. Che, secondo Washington, costringe gli stati arabi “moderati” ad una escalation militare. Per Arabia Saudita, Emirati o Bahrein, infatti, la caccia all’atomo non serve solo a diversificare le proprie fonti di energia forse destinate ad esaurirsi. Si tratta di Paesi esportatori di petrolio che sull’alto prezzo del barile prosperano. Un’abbondanza che resta comunque sotto la spada di Damocle dell’Iran (a maggioranza persiana e sciita). E un Iran aggressivo dotato di armamento nucleare resta una minaccia non solo per Israele ma anche per tutti gli stati musulmani dell’Africa settentrionale, del Vicino o del Medio Oriente.

Saranno così probabilmente gli Emirati Arabi Uniti a battezzare la prima centrale atomica araba. Ufficialmente per scopi pacifici. Gli Emirati Arabi Uniti hanno già sottoscritto un accordo con la Francia per la costruzione di due reattori e hanno annunciato l’investimento di circa 100 milioni di dollari per la creazione della Nuclear Energy Implementation Organisation, responsabile – insieme all’agenzia internazionale (Iaea) - della  programmazione dei futuri impianti. Che ufficialmente produrranno energia per scopi pacifici. Di fatto, il piccolo Stato arabo si affranca così dal programma nucleare congiunto previsto dal Consiglio di cooperazione del Golfo. Potrebbe in tal modo iniziare una reazione a catena. Giordania, Libia, Algeria, Marocco, aspirano all’indipendenza nucleare “per produrre energia”. L’Egitto ha in previsione di realizzare quattro impianti “pacifici”nei prossimi dieci anni e la Turchia tre. La questione è: quale sarà il livello di tecnologia nucleare conquistato dai Paesi più avanti nei programmi in modo che anche gli altri decidano di non poterne fare a meno? E’ questo che si chiedono a Washington.


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