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L’ombra nera della Cina su Darfur e Myanmar
di BRUNO PAMPALONI

[28 mar 08] Le cronache di questi giorni riportano le preghiere del Santo Padre per le martoriate terre del Tibet e del Darfur. Si tratta di due regioni geograficamente molto lontane ma accomunate dalle mire espansionistiche della leadership cinese. Per Pechino il Tibet è da sempre un’inopportuna attrattiva mediatica, che il regime può forse esorcizzare con una grottesca censura, come accaduto di recente in occasione dell’accensione della torcia olimpica. Per quanto riguarda invece le vicende del Darfur, esse vengono spesso descritte “solo” come un grave problema interno al Sudan. Eppure, le persecuzioni contro le popolazioni del Darfur (alla pari di quelle attuate in Myanmar) sono rese possibili dal concreto aiuto che Pechino offre alla dittatura locale. In Sudan, il Fronte Nazionale Islamico (Nif) dal 1989 ha dichiarato il jihad contro chi si opponeva alla legge coranica. Nel Sud Sudan tutti i soggetti “ribelli”, cristiani e animisti, sono stati brutalmente massacrati. Una politica di arabizzazione forzata proseguita nel Darfur anche contro le etnie autoctone islamiche. Come se non bastasse l’odio etnico-religioso, la scoperta di importanti giacimenti petroliferi (1996) ha trasformato la repressione di Khartoum in uno sterminio “protetto” dalla connivenza cinese. 

Di fatto la Cina è diventata il miglior alleato e sponsor del regime di Omar el Bashir, poiché intenzionata a finanziare il suo colossale sviluppo attingendo senza troppi scrupoli alle risorse energetiche dovunque sia possibile. Un sostegno che, a livello diplomatico, Pechino ha già concretizzato utilizzando il proprio veto in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu per proteggere il governo di Khartoum. D’altra parte - per evitare il completo isolamento internazionale e “comprare” l’appoggio cinese - Omar el Bashir ha privilegiato il Dragone nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi sudanesi. Secondo una ricerca dell’Istituto del Commercio estero italiano (primo semestre del 2007), la “Cina si colloca al primo posto tra i partner commerciali del Sudan, e si distingue per il ruolo da protagonista svolto nello sfruttamento petrolifero […] Pechino ha già investito circa 14 miliardi di dollari in tale settore […] la China National Petroleum Company controlla il 40 per cento della Greater Nile Petroleum che possiede giacimenti e un condotto petrolifero, una grossa raffineria e un porto […] Lo scorso anno la Cina ha comprato più della metà del petrolio esportato dal Sudan. Al contrario, il Sudan ha coperto circa il 6 per cento dell’importazione cinese di petrolio, circa 200.000 barili al giorno”.

Come a Khartoum, anche a Naypyidaw il regime continua a danzare sulfuree tarantelle sopra il cadavere dei diritti umani grazie alla compiacenza di Pechino. Certo, in Myanmar alla base delle persecuzioni dello State peace and development council vi è la tattica del “divide et impera”. Così la giunta, dopo aver alimentato cinicamente i contrasti fra le diverse tribù minoritarie, pur di restare in piedi fomenta anche lotte intratribali. Non solo, infatti, i Karen o i Mon detestano i Birmani, e i Rakhine guardano ai Rohingyas come dei nemici, ma i buddisti disprezzano i cristiani. E tutti sono uniti nell’odio per i musulmani. Il regime ha potuto insomma combattere la rivolta dei Karen sfruttando le lotte religiose interne a quella popolazione: la giunta utilizza l’ala militarista buddista del Democratic Karen Buddhist Army (Dkba) in operazioni di antiguerriglia contro il Karen National Liberation Army (Knla), guidato prevalentemente da comandanti cristiani. Nonostante la dura repressione dei bonzi non va dimenticato che la dittatura aveva sempre favorito il buddismo theravada praticato dalla maggioranza della popolazione (di etnia birmana), costringendo i cristiani a pagare una tassa annuale per sostenere la religione buddista, confiscando le scuole cattoliche o vietando ai cristiani ruoli dirigenti.

Ma la giunta si regge anche grazie al ruolo giocato nella regione da Pechino, maggior partner economico di Naypyidaw. La Cina depreda le enormi foreste di legname birmano e - battendo la concorrenza indiana - saccheggia le risorse di gas e, probabilmente, quelle di energia idroelettrica. Come denunciato nel 2005 da Global Witness, organizzazione ambientalista londinese, “ogni sette minuti, per 365 giorni l’anno, quindici tonnellate di legname attraversano illegalmente il confine tra il Myanmar e la Cina”. Secondo i ritmi di disboscamento attuali presto sarà distrutta la bellissima foresta del Kachin. La ragione di questa spoliazione risiede nel fatto che, resasi conto della scomparsa delle foreste di casa, Pechino ha proibito il disboscamento del suo territorio. Così molti contadini (che con la morte della foresta vedono svanire ogni forma di sostentamento) sono costretti a lasciare le loro abitazioni e a migrare di villaggio in villaggio alla ricerca di un po’ di solidarietà.


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