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Istat: l’Italia si accontenta senza voglia di crescere
di STEFANO
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[29 mag 08] L’Italia è un Paese immobile. Il rapporto Istat 2007, pubblicato ieri, parla chiaro: negli ultimi dieci anni l’economia italiana è salita di un risicato 1,4 per cento, contro il 2,5 degli altri Paesi membri dell’Unione europea. La crescita del prodotto interno lordo però non è da attribuire ad un reale aumento della produttività ma semplicemente al fatto che le aziende si sono “specializzate” in attività finanziarie collaterali o di servizio. Da non sottovalutare, inoltre, nell’era del “mordi e fuggi”, l’inclinazione imprenditoriale nel perseguire obiettivi di redditività a breve termine rispetto alla produttività pianificata. Mediamente le aziende italiane sopravvivono grazie a quattro dipendenti: questo significa che ognuno di essi rappresenta un quarto della produzione totale; perderne uno vuol dire mettere a rischio il processo produttivo. Ecco che allora si preferisce puntare sull’“affare immediato”, quello cioè che garantisce un introito certo, senza necessità di strategia aziendale. Il valore aggiunto che le aziende riescono a garantirsi è quantificabile in circa 400 euro, a fronte di un costo del lavoro pari a 100. Tra i comparti con il più alto margine di guadagno sono da citare il noleggio, i trasporti marittimi, i servizi postali e le telecomunicazioni. Non a caso quattro comparti in cui il regime di concorrenza, se non inesistente, è assai limitato.

La famiglia italiana media vive con 2750 euro mensili (al lordo però dell’affitto, che mediamente è quantificato in 450 euro). L’Istat tiene a specificare che però, se si tiene conto della mediana e non della media aritmetica (in sostanza, non dividendo il reddito complessivo per il numero di famiglie, ma ponderando le classi di reddito), l’introito complessivo di ogni famiglia scende a 1900 euro al mese, ovvero poco meno di 3milioni 800mila delle vecchie lire. Ecco che quindi è spiegato perché la percezione di povertà diffusa sia così evidente e soprattutto estesa anche alle classi del ceto medio. Il mercato del lavoro, sempre secondo la ricerca Istat, lentamente sta assorbendo i disoccupati, passati dai 2milioni 500mila del 1998 al milione e mezzo dell’anno scorso. Non aumenta però il tasso di occupazione. Come spiegarlo? Con l’introduzione della terza classe, i cosiddetti inattivi. Persone, cioè, che non hanno interesse a trovarsi un posto di lavoro oppure che momentaneamente non lo stanno cercando. Gli esempi classici sono gli studenti, i pensionati e chiunque non abbia partecipato almeno una volta in un mese ad un colloquio di selezione al lavoro. Negli ultimi dieci anni, dunque, è salita proprio la fascia degli inattivi che ad oggi è quantificata in circa 3 milioni di persone. Quasi un flop i Centri per l’impiego, le strutture che hanno sostituito i vecchi uffici di collocamento. Soltanto il 4,1 per cento delle persone iscritte ha trovato un lavoro. C’è da dire, però, che la nuova legislazione prevede che i Cpi facciano da intermediari e da accompagnatori al lavoro, cercando di creare un incontro tra la domanda l’offerta. E’ in quest’ottica che dunque va considerato il dato secondo cui più della maggioranza degli inserimenti sono destinati per lavori nell’edilizia, nella ristorazione o nell’amministrazione di bassa qualifica.

Un discorso a parte va fatto per gli stranieri. Nel computo Istat ovviamente sono considerati soltanto gli immigrati residenti, quindi in regola con i permessi di soggiorno. Essi sono quantificati in 3 milioni e mezzo di unità (circa il 6 per cento della popolazione). Le nazioni più rappresentate: Romania (640mila), Albania (oltre 400mila), Marocco (circa 370mila), Cina (circa 160mila) e Ucraina (135mila). Impossibile quantificare, proprio per la loro inesistenza ufficiale, il numero degli immigrati senza permesso di soggiorno e quindi clandestini. Anche se la maggioranza degli immigrati ha intrapreso percorsi corretti di integrazione (inserimento al lavoro ed istruzione per i figli), è aumentato il numero di delitti da loro commessi: nel 2006 si sono contate oltre 100 mila denunce a carico di persone straniere (reati più frequenti: borseggio, furto e rapina). La maggior parte di queste ultime, però, non è risultata in regola con i permessi di soggiorno. Anzi, nella maggioranza dei casi, non è stato neppure richiesto. Considerando soltanto gli stranieri residenti in Italia (e quindi in regola con il permesso) è sintomatico appurare come soltanto il 2 per cento di essi abbiano subito delle denunce: percentuale in linea con quella dei cittadini italiani. Il problema reale dunque, come il governo ha più volte ribadito, non è l’errata integrazione degli stranieri in Italia, ma l’impossibile controllo dei clandestini.


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