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Il puzzle libanese costringe Siria e Israele al dialogo
di ANDREA GILLI

[29 mag 08] Nelle ultime settimane i colloqui tra Damasco e Gerusalemme sono diventati di dominio pubblico. Interrotti dopo la rivelazione del bombardamento del sito nucleare siriano da parte israeliana, essi hanno ripreso il loro corso nei giorni passati, in concomitanza con l’apparente soluzione trovata a Doha per il caos libanese. Poiché se questo dialogo dovesse portare alla pace, gli effetti sarebbero di portata enorme, conviene guardare alle ragioni, apparenti e non, che hanno favorito il riavvicinamento tra i due Paesi per capire se effettivamente vi sarà un seguito. Tutto parte alcuni mesi dopo l’ictus che colpì Sharon. Olmert, allora appena insediatosi come primo ministro, ventilò la volontà di dialogare con la Siria. L’opinione pubblica si scaldò, ci furono dibattiti, critiche, dubbi, ma non seguì nulla. A fine 2006, ci furono delle dichiarazioni analoghe (anche se di portata inferiore) da parte siriana. Anche in questo caso, nel breve periodo, non accadde niente. L’unico punto importante è che tra i due frammenti ci fu la devastante e desolante campagna in Libano – Israele si impegnò per quasi due mesi per debellare Hezbollah, senza riuscirci.

Nella primavera del 2007, Olmert decise di contattare Erdogan per chiedergli di fare da tramite con la Siria. Probabilmente dopo l’insuccesso in Libano, la diplomazia prometteva ritorni più elevati. Israele era pronto alla pace. E per la pace, era pronto a cedere il Golan – questo era il messaggio che Erdogan riportò ad Assad. I colloqui sono continuati, in gran segreto, fino a quando qualche giorno orsono entrambe le cancellerie hanno reso pubblico l’alto livello delle trattative. Fin qui, (quasi tutta) la storia. Ora conviene guardare alle ragioni dei due attori. E’ evidente che il Medio Oriente è stato brutalmente scosso dalla guerra in Iraq prima e dalla cosiddetta Freedom Agenda della Casa Bianca dopo. Se Israele, con l’abbattimento di Saddam Hussein, ha perso un rivale e un finanziatore di Hamas, con la Freedom Agenda, applicata in Libano e a Gaza, ha visto rafforzarsi due grandi minacce – Hezbollah e Hamas, rispettivamente.

Quanto la posizione di Israele, vis-à-vis il Libano, sia peggiorata negli ultimi anni è dimostrato dagli avvenimenti degli ultimi giorni. Hezbollah ora non solo fa parte del governo ma ha anche il diritto di veto. Dall’essere un’organizzazione terroristica dentro il Libano, prima è diventata una forza militare, e poi addirittura una forza governativa. Senza allargarci alle conseguenze regionali della politica estera americana, si vede come la Siria sia stata l’altra grande perdente del puzzle libanese. La Siria controllava il Libano praticamente dal 1975. A partire dal 2005 il suo controllo è evaporato. Contemporaneamente, non solo è cresciuta l’influenza interna di Hezbollah, ma anche l’Iran è riuscito a rendere più autonoma la sua influenza sul Paese. In altre parole, Damasco da essere un perno fondamentale è diventata una seconda ruota di scorta. Dunque, dalla Freedom Agenda, i due perdenti sono stati Israele e Siria. Proprio i due Paesi che, formalmente, sono ancora in guerra dal 1948. Di qui, probabilmente, le ragioni che hanno spinto i due Stati ad avvicinarsi. D’altronde, fin quando la Siria controllava il Libano, il problema Hezbollah era molto meno pressante per Israele. Dall’altra parte, proprio attraverso il controllo del Libano la Siria poteva godere di una posizione geopolitica più rinomata. Con queste trattative, i due Paesi sembrano voler tornare alla fase storica precedente.

Raccontata così, la vicenda sembra lineare e coerente. Alcuni pezzi, però, non si incastrano nel puzzle. E di qui sorgono i dubbi sulle possibilità di successo. In primo luogo il bombardamento del sito nucleare siriano. La diplomazia è fatta di carota e bastone. Quindi è assolutamente possibile che Israele abbia voluto “convincere” la Siria alla convenienza delle trattative. Non è però chiaro per quale ragione la Siria abbia voluto riprendere così in fretta i colloqui, e senza neppure rispondere a quella che, oggettivamente, è una provocazione da parte israeliana. E’ possibile che vi siano alcuni dati non a nostra disposizione, ma Damasco non sembra nel punto di cadere da un giorno all’altro, né tanto meno di poter essere salvata solo più da Gerusalemme. Il secondo dubbio riguarda Olmert. In primo luogo, la promessa delle alture del Golan è molto, molto difficile da mantenere. In secondo luogo, la strana loquacità degli ultimi giorni sembra voler celare i problemi che potrebbero portarlo via dal potere. In altri termini, Olmert non solo ha promesso ciò che forse non può mantenere, ma negli ultimi giorni sembra aver voluto usare le trattative con Damasco per nascondere la crisi che potrebbe portare alla fine della sua carriera politica.

In questo intricato quadro arrivano gli Stati Uniti. Fonti ufficiali israeliane hanno fatto sapere di aver sempre tenuto informata Washington delle trattative con la Siria. La Casa Bianca però non deve mai aver gradito. Prima è stato reso noto il blitz di settembre, proprio mentre diventavano di dominio pubblico i colloqui tra Gerusalemme e Damasco. Poi Bush alla Knesset diceva che Olmert non era fondamentale per la pace con i Palestinesi e, dall’altra parte, che trattare con terroristi e radicali significa ritornare all’appeasement. In conclusione, il dialogo tra Israele e Siria è, potenzialmente, di portata enorme. Se Gerusalemme riuscisse infatti a siglare una pace con Damasco, non solo verrebbe chiuso un fronte aperto sin dal 1948, ma soprattutto non è difficile immaginare una maggiore cooperazione tra i due Paesi per estromettere Hezbollah dal potere in Libano (obiettivo, però, tutt’altro che facile da raggiungere). I recenti scontri, anche militari (seppure informali) tra i due Paesi, la debolezza del premier israeliano, e lo scontento americano (senza parlare di quello iraniano) rendono molto più complicata la situazione. Damasco e Gerusalemme stanno dialogando per arrivare alla pace. E’ possibile che essa arrivi presto. Poiché manca dal 1948, è anche possibile che decida di attendere ancora un po’, forse un bel po’.


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