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Meritocrazia sì, ma anche in Confindustria
di ANTONIO FUNICIELLO

[28 mag 08] Passano i presidenti di Confindustria, ma la loro ramanzina d’insediamento ai politici invitati resta sempre la stessa. Nei quattordici anni di seconda Repubblica, da Abete alla Marcegaglia, attraverso Fossa, D’Amato e Montezemolo, i discorsi d’insediamento delle varie presidenze suonano sempre gli stessi spartiti: cari politici, come fate a non capire che occorre più crescita, più merito, più donne, più giovani. Marcette da guerra strimpellate contro la consueta politica prona, che occupa dimessa e riverente le prime file, senza dir nulla. Come se il concetto di classe dirigente di una nazione si restringesse - caso unico nel mondo occidentale - solamente alla classe politica e gli imprenditori ne fossero bellamente esclusi. Come se non fosse il nostro capitalismo una parte grossa del problema-Italia e nient’affatto una parte della sua soluzione. Forse in nessun caso come durante le assemblee annuali di Confindustria si assiste fisicamente alla debolezza della politica in Italia. Dal ’94 sono cinque i presidenti del Consiglio che, nell’espletamento delle funzioni del loro ruolo, avranno assistito ad almeno un discorso dei loro corrispettivi confindustriali: Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, Amato. Di nessuno di loro si ricorda, non diremmo una qualche reazione, ma a dir poco un sussulto alle solite accuse.

Non si tratta di rilevare quanto il nostro capitalismo familiare sia inadeguato alle sfide del mercato globale. Su questo sono stati scritti libri che mettono alla berlina tutti i suoi elementi di deficienza. Dall’effettiva incontenibilità delle imprese italiane, agli innumerevoli conflitti di interesse (briciole, al confronto, quelli tanto vituperati dell’attuale capo del governo…) che rendono solo una presunzione la libertà del nostro mercato, fino a tanti, tanti altri. Non si tratta così di richiamare noiosamente uno per uno, e aggravati nel loro sistemico insieme, limiti e difetti del capitalismo italiano. Ma di uscire dall’equivoco che spetti solo alla politica cercare di porre rimedio. La settimana scorsa la Marcegaglia ha insistito ancora sulla penuria di donne lavoratrici. E’ vero, in Italia è attivo solo il 47 per cento delle donne in età lavorativa, fino a scendere al 31 per cento nel Mezzogiorno: un’occupazione femminile per nulla allineata ai tassi medi europei. E’ vero, se lavorassero più donne la ricchezza nazionale aumenterebbe notevolmente, facendo schizzare in alto il nostro Pil di sei, sette punti percentuali. Tutto vero. Ma nei Paesi dove si è realizzato un graduale incremento dell’occupazione femminile, ciò è avvenuto solo in parte in virtù di politiche statali (sgravi fiscali, e altro). In gran parte l’incremento di donne al lavoro si è prodotto semplicemente perché gli imprenditori di quei Paesi hanno cominciato ad assumerle. Il ceto imprenditoriale si è fatto classe dirigente scegliendo di coinvolgere nella forza produttiva le energie femminili, senza o ben prima che lo stato glielo suggerisse, trovandolo invece direttamente vantaggioso per i propri sacrosanti obiettivi di profitto e indirettamente utile per il sistema sociale e civile in cui l’impresa è inserita.

Gli esempi sono tanti. Con le stesse parole dei suoi predecessori, la Marcegaglia ha pure toccato con enfasi il tasto della meritocrazia. Guardando negli occhi una politica incapace di rigenerare se stessa, ha tuonato affinché in Italia torni funzionate il famigerato ascensore sociale: “Noi vogliamo una società aperta, che premi e promuova il merito, dove siano date a tutti uguali opportunità di partenza, dove ci sia maggiore mobilità sociale, più competizione” (pag. 18 della sua relazione). Un elenco dei presidenti dei giovani confindustriali succedutisi negli anni della Seconda Repubblica può forse tornare utile per capire alcune delle ragioni per cui quel famoso ascensore è fuori servizio da tempo. Nel 1994 è eletto presidente Alessandro Riello, nipote di quel Raffaello Riello che 80 anni fa diede vita alla Riello Bruciatori, azienda leader nel campo. Nel ’96 gli subentra Emma Marcegaglia, figlia di Steno, fondatore, ormai decenni addietro, dell’impero siderurgico di Gazoldo degli Ippoliti. Nel 2000 è la volta di Edoardo Garrone, attuale presidente della Erg, acronimo che sta proprio per Edoardo Raffinerie Garrone; un caso di omonimia: l’Edoardo dell’acronimo è il nonno dell’Edoardo attuale presidente. Nel 2002 è eletta Anna Maria Artoni e basta andare sul bel sito www.artoni.it per leggere che “alla fine dell’800 gli uomini della famiglia Artoni già percorrevano le strade della provincia di Reggio Emilia trasportando mercig; già alla fine dell’800. Nel 2004 il testimone passa a Matteo Colaninno, vice presidente del Gruppo Piaggio e di Omniaholding, delle quali è presidente il “capitano coraggioso” Roberto, padre di Matteo. Fino ad arrivare, poche settimane fa, all’elezione di Federica Guidi, direttore generale di Ducati Energia, di cui è presidente e proprietario il papà Guidalberto, recordman italiano di presenza in Cda e già vice presidente di Confindustria per un decennio (dietro Abete, piuttosto che dietro Fossa, piuttosto che dietro D’Amato). Un elenco che parla da solo. Intendiamoci, i nominati sono tutti imprenditori di indiscusse qualità. Ma forse la mera successione dei loro cognomi può bastare per pretendere dai confindustriali meno enfasi e un po’ di senso della misura in più.


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