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Nuovo presidente in Libano. Israele e Siria trattano
di
FEDERICO PUNZI

[26 mag 08] L’elezione alla presidenza del capo dell’esercito, il generale Michel Suleiman, avvenuta domenica, suggella la tregua siglata la scorsa settimana a Doha, in Qatar, tra maggioranza anti-siriana e opposizione guidata da Hezbollah. Nel discorso d’investitura il nuovo presidente ha assicurato di voler agire nel rispetto degli accordi di Taif e di tutte le risoluzioni dell’Onu; ha esortato le forze politiche libanesi ad accettare i risultati delle elezioni; ha citato il “martire Rafiq Hariri e tutti i martiri del Libano”, con un esplicito riferimento al tribunale internazionale che dovrebbe giudicare i responsabili dei crimini politici; ha reso omaggio a Hezbollah, definendo “necessaria” la “resistenza” contro Israele, che dovrà avere un ruolo nella “strategia di difesa”; ma ha anche ammonito che “non si può sprecare la forza della resistenza nelle lotte interne” e che non è ammissibile che la “causa palestinese” divenga un “pretesto per qualsiasi armamento in contrasto con la sicurezza nazionale”. Per il Libano non più d’una boccata d’ossigeno. Restano irrisolte le questioni chiave, su cui il presidente Suleiman giocherà un ruolo fondamentale. Secondo l’accordo di Doha, infatti, sotto la sua supervisione si dovrebbe svolgere il dialogo sulle armi di Hezbollah. Spetterà principalmente a lui, inoltre, ridefinire i rapporti con la Siria e l’Iran, che significa limitarne l’influenza. Ieri ha esordito auspicando con Damasco “legami fraterni, nel contesto del mutuo rispetto della sovranità e dei confini di ciascuno”.

Ma la figura di Suleiman non offre troppe garanzie: ritenuto vicino ai partiti di maggioranza (si rifiutò di impiegare l’esercito per reprimere le manifestazioni della “Rivoluzione dei Cedri”), tuttavia nell’ultima crisi ha mancato di schierare le sue truppe contro i miliziani di Hezbollah, disobbedendo al governo Siniora e arrogandosi il diritto di ribaltarne le legittime decisioni. Alcuni ricordano che ebbe parole di apprezzamento per Hezbollah dopo la guerra del 2006 contro Israele; che fu nominato all’apice della “tutela” siriana; e che suo cognato era portavoce del padre dell’attuale presidente siriano. A Doha, Hezbollah ha trasformato una vittoria militare in vittoria politica. Precedente grave, ma in realtà non cambia lo status quo sul terreno, perché il movimento sciita già esercitava de facto, con la forza, un potere di veto sulle iniziative del governo, che ora gli è stato riconosciuto ufficialmente a livello politico in seno al nuovo esecutivo di unità nazionale. I leader della coalizione del “14 Marzo” possono consolarsi guardando con largo anticipo alle elezioni parlamentari del 2009, sapendo che le modifiche alla legge elettorale dovrebbero favorirli e che i Paesi arabi sono più inclini ad occuparsi delle vicende libanesi in funzione anti-iraniana. Secondo David Schenker, ex consigliere del segretario alla Difesa Usa, “dato il probabile esito delle elezioni parlamentari del 2009, la vittoria del gruppo sciita potrebbe avere vita breve”. Hezbollah ha sì dimostrato di poter prendere il controllo di Beirut in mezza giornata, ma anche di essere disposto a puntare contro i concittadini le armi che da sempre giura di possedere per la “resistenza” contro Israele. Ciò ha fatto calare di molto la sua popolarità presso la maggioranza non sciita della popolazione libanese. Per gli Usa e i loro alleati dovrebbe essere un “imperativo andare oltre la retorica ed elaborare misure efficaci per appoggiare gli alleati filo-occidentali in Libano”, osserva Schenker. A meno che non mobilitino rapidamente le loro forze per sostenerli, nel medio-lungo termine sarà inevitabile che Iran e Siria prendano il controllo del Libano per mezzo di Hezbollah, costituendo una minaccia concreta alla sopravvivenza di Israele.

Ma la tregua libanese non può non essere messa in relazione con il contestuale annuncio della ripresa dei colloqui di pace, sia pure indiretti, tra Israele e Siria. L’analista Andrew Cochran si chiede come mai l’amministrazione Bush non sia riuscita a prendere una decisione sul da farsi e abbia dovuto fare buon viso a cattivo gioco: sostenere l’accordo pur ammettendo l’accresciuto potere di Hezbollah. Quali i motivi di fondo che hanno impedito alla Casa Bianca di elaborare per tempo una contro-strategia coerente ed efficace rispetto a quanto accadeva a Beirut prima e a Doha poi? Che ci sia di mezzo un “grande accordo” con la Siria, da concludere con l’assistenza degli Stati arabi? Cochran cita un’audizione al Congresso, del 24 aprile scorso, di Gary Ackerman, presidente della sottocommissione per il Medio Oriente: “Molti analisti ritengono che l’alleanza tra Iran e Siria sia tattica e transitoria; che se solo gli Stati Uniti avanzassero alla Siria un’offerta sufficiente mente vantaggiosa, l’asse tra Teheran e Damasco andrebbe in frantumi e il Medio Oriente ne uscirebbe trasformato. In cambio delle alture del Golan e della restaurazione del suo protettorato sul Libano, la Siria potrebbe rinnegare la sua relazione con Hezbollah, dare il benservito ad Hamas, e sbattere la porta in faccia all’Iran”, che perderebbe il suo unico alleato tra gli Stati arabi e di fronte a un mondo arabo compatto “riporrebbe nel cassetto i sogni di egemonia e scambierebbe il programma nucleare con garanzie sulla sua sicurezza”. Ackerman dice di non esserne convinto, ma la tesi avrebbe molti sostenitori all’interno dell’amministrazione e oggi sembra ancora più accreditata dall’annuncio della ripresa dei contatti tra Israele e Siria. Pare che Ahmadinejad sia furioso. Il sostanziale “via libera” degli Usa, da sempre contrario, suggerisce che il tentativo potrebbe davvero essere in corso.

Tuttavia, la freddezza delle reazioni ufficiali, quasi stizzite, potrebbe anche significare che Washington abbia subito la scelta di Tel Aviv. Che solo gli israeliani abbiano fatto propria la tesi del coinvolgimento della Siria, che abbiano realizzato di non poter contare sugli Stati Uniti e sull’Onu per difendere i loro confini settentrionali e di poter invece barattare il Golan con la garanzia che Damasco impedirà futuri attacchi da parte di Hezbollah. In cambio, l’ha accennato esplicitamente il ministro degli Esteri Tzipi Livni, Israele si aspetta dai siriani “il completo abbandono del sostegno al terrorismo, a Hamas, a Hezbollah e all’Iran”. Sarebbe più difficile per Teheran minacciare Israele con una guerra asimmetrica via Hezbollah in Libano o via Hamas a Gaza. Per Damasco, l’avvio di negoziati potrebbe convincere le grandi potenze che la pace con Israele è più importante di portare davanti alla giustizia gli assassini di Hariri. Inoltre, secondo Amir Taheri, almeno una parte della leadership siriana è preoccupata per l’abbraccio sempre più stringente dell’Iran, già causa di un isolamento senza precedenti della Siria nel mondo arabo. Con l’accordo di Doha è anche apparso evidente che in Libano l’influenza iraniana ha ormai preso il posto di quella siriana, e che la Siria stessa rischia di essere egemonizzata dallo sciismo dei mullah. Ma non potrebbe affrontare la minaccia iraniana senza trovare “nuovi amici”, in particolare tra gli Stati arabi moderati, gli europei e gli Usa.

Washington è apparsa presa in contropiede dalla facilità con la quale Hezbollah ha battuto i suoi rivali a Beirut e non ha giocato alcun ruolo, né a Doha, né nella ripresa del dialogo indiretto tra Israele e Siria, eventi che sembrano contrari alla sua strategia nella regione. Iniziative unilaterali di Olmert e della Lega araba? Gli Stati Uniti sono dunque isolati e indecisi o anche a Washington ha prevalso la linea “realista” del coinvolgimento di Damasco e del sacrificio del Libano? In ogni caso, al giuramento di Suleiman, a Beirut, era presente solo una delegazione del Congresso, mentre Stati arabi, Iran, Turchia, Francia, Italia e Spagna hanno mandato i ministri degli Esteri. E suonano in modo sinistro le parole usate domenica, durante la sessione per l’elezione del presidente, da Nabih Berri, esponente di Hezbollah e speaker del Parlamento libanese, che ha voluto “ringraziare” gli Stati Uniti, “soprattutto da quando si sono convinti che il Libano non è luogo giusto per la nascita del loro progetto di Grande Medio Oriente”. Se i fautori del dialogo con la Siria per strapparla all’abbraccio con l’Iran non stanno ancora prevalendo all’interno dell’amministrazione Usa, le divergenze alimentano i dubbi sulla strategia da seguire e sembrano minare la capacità decisionale di Washington in passaggi fondamentali come quelli di Beirut e Doha.


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