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Le larghe intese non fanno bene alle privatizzazioni
di GIOVANNI BOGGERO

[26 mag 08] Se l’auspicio di “larghe intese” tra le due formazioni che dominano attualmente la scena politica italiana è spesso motivato dalla necessità di accorciare i tempi per l’approvazione delle riforme che servono al Paese, in Germania la Grosse Koalition, massimo esempio di tale collaborazione tra due grandi partiti popolari, sembra per ora aver seguito tendenze di natura opposta. Non più tardi di sei mesi dopo l’ascesa al potere di Angela Merkel, infatti, i principali quotidiani tedeschi annunciavano con una certa euforia che la quotazione in borsa delle ferrovie tedesche, la Deutsche Bahn, era imminente, che Cdu e Spd erano ad un passo da questo storico accordo e che di lì a poco si sarebbero prodigiosamente spalancate le porte della concorrenza anche per il settore ferroviario. A distanza di ventiquattro mesi esatti da quei giorni, in barba al luogo comune che vuole l’Italia come Paese simbolo dell’immobilismo, nulla è andato nella direzione auspicata da Hartmut Mehdorn, il coriaceo amministratore delegato del gruppo, vero e proprio sponsor dell’iniziativa di privatizzazione. Destino ha infatti voluto che, un po’ per l’opposizione interna dei Länder, contrari ad una vendita della rete ferroviaria oltre che del servizio, un po’ per l’acrimonia degli scioperi indetti nell’autunno scorso dai macchinisti per invocare un aumento delle retribuzioni, il progetto sia andato lentamente arenandosi. Il tutto con la stolida compiacenza degli ambienti più massimalisti dell’Spd, i cui esponenti fecero inizialmente dipendere il loro consenso parlamentare alla riforma dalla distribuzione dell’intera quota azionaria in oggetto soltanto a piccoli risparmiatori.

Veti e accomodamenti vari che non hanno sortito altro effetto se non quello di corrodere e portare al deperimento la coraggiosa bozza di privatizzazione iniziale, che prevedeva la cessione al mercato del 49 per cento del capitale azionario dell’impresa, il cui pacchetto di maggioranza, secondo quanto sancito dalla Costituzione, doveva però obbligatoriamente rimanere in capo alla federazione. Invero, la salute di cui gode la società, in grado di macinare utili operativi da record (almeno per un’impresa pubblica), ha spinto molti osservatori, politici e non, a domandarsi per quale motivo Deutsche Bahn dovesse per forza vendersi al miglior offerente sulla pubblica piazza del mercato azionario. La risposta non riposava di certo nelle mire liberiste di qualche economista di palazzo, ma piuttosto nell’esigenza impellente di far affluire nelle casse del gruppo nuova liquidità, in modo tale da finanziare le opere di miglioramento e potenziamento delle stazioni, nonché per ringiovanire il parco locomotive e vagoni. Tutte spese che lo Stato difficilmente avrebbe voluto o potuto accollarsi. Il timore di massicci tagli al personale e di soppressione delle tratte economicamente meno appetibili ha però ingenerato forte avversione verso il progetto, la cui portata è stata progressivamente ridimensionata fino al compromesso (al ribasso) raggiunto qualche settimana fa.

Il governo federale si è infatti impegnato a mettere sul mercato il 24,9 per cento del capitale azionario entro la fine dell’anno. I titoli non avranno alcuno specifico vincolo di destinazione, ma è presumibile, come assicurano dalle parti della Cdu-Csu, che verranno corteggiati investitori capaci e di consolidata esperienza. Chi lo sa, magari proprio quei fondi di private equity, paragonati qualche tempo fa a voraci locuste e additati come frutto velenoso della degenerazione capitalistica dall’ex ministro del Lavoro e vicecancelliere Franz Müntefering (Spd). Alcuni economisti sono tuttavia del parere che una mini-privatizzazione di questo tipo godrebbe di scarsa attrattiva sui mercati, giacché l’investitore diventerebbe solamente socio di minoranza e non avrebbe quindi alcun rilevante potere decisionale in assemblea. Di qui l’urgenza di guardare altrove e magari di privilegiare perfino il rilevamento di una piccola quota del gruppo da parte della seconda compagnia ferroviaria più grande al mondo, la russa Rjd, il cui unico difetto sta tuttavia nel fatto di essere controllata direttamente dal Cremlino. Un cruccio in più che le autorità tedesche vorrebbero davvero evitare.

Intanto, comunque, il Governo spera di poter incassare circa 8 miliardi dall’operazione: due terzi del ricavato, ha chiarito il ministro delle Finanze Peer Steinbrück (Spd), rimarranno nelle casse della società per la realizzazione delle infrastrutture, mentre il restante terzo finirà plausibilmente all’erario. Infine l’altro nodo, quello riguardante la proprietà e la gestione della rete, si è risolto in un sostanziale nulla di fatto. Benché la manutenzione della linea ferroviaria sia tutt’altro che soddisfacente, l’intenzione iniziale del ministro dei Trasporti Wolfgang Tiefensee (Spd), che pretendeva di accorpare economicamente la rete all’azienda, lasciando allo Stato solo la proprietà giuridica dei binari, è rimasta inevitabilmente lettera morta. Cosa resta dunque dell’intento originario? Ben poco. Da un’impresa totalmente nelle mani della federazione si passerà infatti ad una società controllata in maggioranza dallo Stato. Non per nulla anche nelle cronache giornalistiche il sostantivo privatizzazione è stato progressivamente soppiantato dal più pudico Bahn-Reform (riforma delle ferrovie). L’adagio di tomasiana memoria ci è insomma utile per descrivere gli esiti infecondi delle larghe intese: “Cambiare tutto, perché nulla cambi”.


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