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Giovanni Falcone, vittima della mafia e dell’invidia
di ENRICO GAGLIARDI

[23 mag 08] “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”, queste parole di Giovanni Falcone, autentico testamento spirituale e morale del giudice palermitano, risuonano oggi in tutta la loro attualità. A distanza di 16 anni dalla sua morte le cose non sono cambiate affatto. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, quando la lotta alla mafia era probabilmente all’apice del suo svolgimento, Giovanni Falcone fu oggetto di invidie, maldicenze e rancori da parte degli stessi che poi una volta morto ne hanno riabilitato la figura appropriandosi della sua memoria. Le modalità erano le stesse di oggi, sembrano ciclostilate in una sorta di manuale del buon diffamatore tanta è la loro somiglianza: è la tecnica del “mascariare”, del compromettere al fine di delegittimare l’interlocutore. Giovanni Falcone era pienamente consapevole di queste circostanze e in più di un’occasione ebbe a denunciare tale modo d’agire. I suoi detrattori provenivano da diversi ambiti, dalla politica, per esempio, ma anche dalla magistratura.

Le motivazioni erano le più disparate ma tutte avevano come elemento comune l’invidia profonda per un uomo che con il suo modo di ragionare era riuscito ad entrare nella mente di Cosa Nostra, riuscendo così a scardinare il sistema mafioso. Sono note le accuse di alcuni politici che durante varie trasmissioni televisive lo accusarono, neanche tanto velatamente, di tenere chiusi nei cassetti documenti su delitti eccellenti così come è nota la voce secondo la quale il mancato attentato alla villa dell’Addaura (luogo di villeggiatura dove si era recato con la moglie Francesca Morvillo) era stato organizzato dallo stesso Falcone solo al fine di farsi pubblicità ed attirare sulla propria persona l’attenzione di tutti. Per non parlare delle enormi difficoltà che dovette affrontare per istruire il maxiprocesso, difficoltà provenienti dall’interno stesso di certa magistratura organizzata. L’elenco potrebbe continuare saltando a piacere da un anno all’altro: nel 1988 per esempio tutti si attendevano la nomina di Falcone a nuovo consigliere istruttore di Palermo ma il Csm gli preferì Antonino Meli seguendo il criterio di anzianità nonostante Falcone avesse una lunga esperienza dopo anni di lavoro sul fenomeno mafioso.

La storia professionale di Giovanni Falcone, dunque, è costellata da fenomeni di questo tipo fino a quel 23 maggio 1992 quando sulle macerie ancora fumanti dell’autostrada di Capaci inizia la riabilitazione di comodo, nascosta ed aiutata da un’onda di sentimento e dolore che aveva colpito tutta l’Italia, un Paese in cui tradizionalmente la memoria storica non è mai particolarmente ferrea. Ecco allora che nelle tribune del Paese, sui giornali, iniziano in tanti a definirsi amici e colleghi stretti di Falcone; molti calcano ancora la scena politica e si autocelebrano come vessilliferi della memoria del giudice siciliano, esegeti del suo pensiero, monopolisti del suo ricordo salvo contrastarlo ed isolarlo in tutti i modi quando era in vita. Forse il modo migliore per ricordare Giovanni Falcone oggi a distanza di sedici anni è proprio questo: stigmatizzare il comportamento di chi lo ha “mascariato” quando era vivo, quando era il momento più giusto per stargli vicino ed in tal senso indimenticabili restano le parole di una giovane Ilda Boccassini che in un’occasione utilizzò parole di fuoco contro i detrattori di Falcone (“Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali”). Sventurato il Paese che ha bisogno di eroi diceva Brecht, ma misero è quello che si appropria in maniera truffaldina della loro memoria.


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