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Gli eroi del fotogiornalismo di guerra
di
MARTA BRACHINI

[20 mag 08] Le immagini che giungono da Beirut sono di violenza e distruzione. Le foto che arrivano ai nostri occhi sono state scattate da fotoreporter che rischiano la vita per l’informazione. Le immagini non possono ingannare come le parole. Nel 2006 la fotografia vincitrice del concorso internazionale di fotogiornalismo World Press Photo venne stata scattata a Beirut il 15 agosto, dopo i bombardamenti israeliani dei quartieri-base dell’ala militare Hezbollah, da Spencer Platt, fotografo dell’agenzia americana Getty Images. Il paradosso e la contraddizione del Libano di oggi non hanno bisogno di essere spiegati a parole se esiste questo scatto. Una bella decapottabile rossa, quattro giovani libanesi con occhiali scuri che nascondono uno sguardo attonito, odore di polvere di cemento su uno sfondo di macerie urbane. E’ la modernita’ del Libano multiconfessionale sullo sfondo di una guerra civile non del tutto superata.

Il premio di quest’anno, 51esima edizione mondiale del Wpp, è andato al fotografo Tim Hetherington di Vanity Fair. Lo scatto del 16 settembre 2007 cattura lo sfinimento di un soldato americano dopo i combattimenti nell’enclave talebana di Korengal Valley in Afghanistan. Ad ogni guerra la sua contraddizione, l’umano e il disumano si pesano e si confrontano contestualmente sul campo. Questa immagina è ora in mostra al museo di Roma in Trastevere, insieme ad altri 59 scatti premiati da una giuria indipendente che ha selezionato ben 80536 immagini, di 5019 fotografi professionisti di 125 Paesi diversi. Le immagini selezionate raccontano le aree più calde del mondo nell’anno 2007. Immaginare il fotografo dietro l’obiettivo che ritrae lo scenario dell’omicidio di Benhazir Buttho in Pakistan è agghiacciante. Osservando la fotografia si sente la vibrazione dell’esplosione, una deflagrazione assordante, l’odore di corpi e sangue misto a fumi neri, pezzi di corpi ricaduti dopo un volo di qualche metro in aria. Il rischio del reportage è altissimo in certi Paesi. Scorrendo gli scatti della mostra si comprende chiaramente il lato oscuro del mestiere. Embedded in Iraq o Afghanistan, oppure in missione per le grandi agenzie, si rischia la morte per fotografare. Dai missili dei militanti palestinesi di Gaza alle agitazioni politiche in Kenya, dall’esodo dei profughi del Darfur alla violenza ed emarginazione in Colombia.

Tuttavia non c’è solo guerra tra i reportage. Una notevole profondità d’informazione ci raggiunge negli scatti di una enclave militare femminista nel cuore di regioni remote del Kurdistan. O rituali al limite del satanismo prodotti dall’evoluzione del sincretismo religioso del Sud America. O strane forme di iniziazione sociale diffuse tra tribù indigene australiane dalle quali prende spunto un bizzarro sport come il bungee jumping. Alcune tra le immagini premiate dal 1955 ad oggi sono entrate con forza nell’immaginario collettivo mondiale. Basta scorrere l’archivio web del Word Press Photo per accorgersi che ancora oggi chi parla di oppressione e mancanza di diritti politici in Cina rievoca l’immagine dell’uomo immobile di fronte a una colonna di carri armati in piazza Tiananmen. E’ la foto di Charlie Cole, giornalista americano di Newsweek, testimone delle dimostrazioni per le riforme democratiche a Pechino il 4 giugno 1989. In cinquant’anni di reportage sembra essere cambiato di poco lo scenario mondiale. Infatti è facile notare come molti eventi del passato, oramai storicizzati in testi e discorsi politici, siano ad oggi ancora evidentemente attuali.

La fotografia aiuta a semplificare certi paralleli. Un esempio puo’ essere quello del genocidio nel Darfur visto accanto all’immagine del volto sfigurato dal machete di un Hutu punito per presunto collaborazionismo coi ribelli Tutsi (Rwanda, giugno 1994). Mai come oggi conosciamo il potere dell’immagine per mobilitare ed influenzare l’opinione pubblica. Ma a quanto pare non è sufficiente a cambiare il corso delle cose. Nel 1963 a Saigon, Vietnam del Sud, i monaci buddisti si davano fuoco per protestare contro le persecuzioni politiche. Oggi in Tibet e in Birmania ancora si lotta per la libertà di culto. La foto di quel monaco in fiamme, scattata da Malcom Browne per Associated Press, ha reso celebre la competizione fotogiornalistica internazionale. I critici parlano di spettacolarizzazione del dramma. Per contro, chi difende la professione in questione parla di missione personale e senso di partecipazione alla tragedia e alla storia dell’umanità. Nessuna pretesa di cambiare le sorti degli eventi, ma solo quella di documentare e far conoscere il clima di sopruso e di guerra. Nel sito web dell’AP Italia è fitto l’elenco di giornalisti morti per raggiungere questo scopo. Gli spettri di guerra civile che si aggirano oggi a Beirut non sfuggiranno agli obiettivi di nuovi pasionari del fotogiornalimo.


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