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Enzo Tortora, l'uomo che visse due volte
di
VITTORIO PEZZUTO

[19 mag 08] In occasione dei vent'anni dalla morte di Enzo Tortora, pubblichiamo un estratto dal libro Applausi e sputi di Vittorio Pezzuto, edito da Sperling & Kupfer.

Venticinque anni fa, alle quattro e un quarto del mattino del 17 giugno, bussano alla porta di una camera dell’Hotel Plaza di Roma. Spalancato l’armadio, aperta una valigia, sequestrata un’agenda telefonica, guardato dentro ai calzini e spaccato un salvadanaio di ceramica a forma di porcellino (non si sa mai) si portano via un uomo stralunato, che ha appena avuto il tempo di vestirsi e di raccogliere pochi effetti personali in un sacca di tela rossa. Quando scendono con l’ascensore nella hall deserta il portiere di notte ha appena il tempo di mormorare – dietro al banco, la testa bassa – un “Mi dispiace” all’uomo che, come in trance, cammina in mezzo ai quattro carabinieri in borghese.

Fuori è buio. In via del Corso non passa nessuno. La prua dell’Alfetta punta decisa su via In Selci, sede del nucleo operativo dei carabinieri. Condotto in ufficio, l’uomo viene fatto sedere davanti a una scrivania ingombra di incartamenti. “Lei è in stato d’arresto”. “Come?” “C’è un ordine d’arresto dalla procura di Napoli”. “Ma per cosa??” “Non lo sappiamo”. Un collasso, le mani e le gambe che si fanno di ghiaccio. Quindi la ricerca di un avvocato e una telefonata alla figlia Silvia: “Ricordati che papà è quello di sempre”. L’angoscia si raggruma in una lunga, incomprensibile attesa. I militari hanno l’ordine di aspettare mezzogiorno per tradurlo nel carcere di Regina Coeli, nessuna fretta deve compromettere la riuscita di una regia studiata da tempo. Il cellulare è stato posteggiato dall’altra parte della strada per meglio consentire a teleoperatori e fotografi di vivisezionare in tutta calma il volto del prigioniero, zoomando sulle manette che stringeranno i suoi polsi. Il tempo sgocciola. All’uomo vengono prese le impronte digitali e scattate le foto di rito: faccia e profilo. La faccia e il profilo di Enzo Tortora.

Epilogo
Venticinque anni sono passati da quella notte all’Hotel Plaza e le ceneri di Enzo Tortora aspettano ancora giustizia. Oggi sappiano che le cause intentate presso il tribunale civile di Roma e la Corte europea dei diritti dell’uomo si sono insabbiate in un mare di cavilli e che non uno degli inquisitori ha pagato una lira o un’oncia della propria carriera. Anzi, quella è avanzata tranquillamente per anzianità: Felice Di Persia? Membro del CSM e procuratore capo della Repubblica di Nocera Inferiore; Lucio Di Pietro? Procuratore aggiunto della Direzione Nazionale antimafia e procuratore generale della Repubblica di Salerno; Diego Marmo? Procuratore generale presso il tribunale di Torre Annunziata; Luigi Sansone? Presidente della VI sezione penale della Corte di Cassazione; Orazio Dente Gattola? Presidente di sezione del tribunale di Torre Annunziata nonché apprezzato giurista.

Ai 10 milioni di lire lasciati dallo stesso Tortora e ai 30 milioni versati dal Partito radicale, nelle casse della Fondazione internazionale Enzo Tortora si sono aggiunti nel 1991 solo 200 milioni che la Rizzoli Periodici è stata condannata a pagare come risarcimento per i danni morali originati da un articolo (“Tortora oppure falco?”) di Giulio Orecchia apparso nel luglio 1986 sul mensile Nomi di Oggi, diretto da Paolo Occhipinti.In quelle pagine la vicenda umana, professionale e politica del presidente del Partito radicale veniva deturpata da una ricostruzione ambigua e malevola, a partire dal sommario: “Indipendentemente dalla sentenza del tribunale sulla clamorosa vicenda di camorra e droga, per la gente l’interrogativo rimane: è il destino dell’ex presentatore sempre in bilico fra lacrime e insolenze, edulcorato sul video e intrattabile in privato, liberale e radicale, beniamino delle vecchiette e incapace di tenersi una donna”. Vincendo una certa repulsione, scorriamo alcuni stralci di questo articolo esemplare: “Ambiguo fino a usare per falsi scopi la più schietta sincerità”. “Quando faceva Campanile sera un dubbio tormentava i meno ingenui: non si capiva se girava da Nord a Sud a organizzare feste paesane e arbitrare feste goliardiche o se “spingeva” questo o quel Comune alla vittoria con mire oscure e tornaconto personale”. “Si è laureato in Legge con buoni voti e ha perfino superato l’esame per diventare giornalista. Ma era forse un allievo modello? La sua doppia faccia (di chi sa farsi promuovere tenendo deplorevole condotta) era già sbocciata in gioventù”. “Con le sue brame da intellettuale (sosteneva e sostiene che il suo autore preferito è Karl Popper, epistemologo aristocraticamente sconosciuto) finì a fare il cronista e poi a guidare Campanile d’oro”. “Aveva qualche amico in corso Sempione e la sua fede liberale (non granitica come abbiamo visto) lo rendeva bene accetto al conservatorismo di allora”. “Dietro le quinte era una furia. Venne invischiato in oscure faccende di soldi, incominciò a lasciarsi andare al turpiloquio anche di fronte ai giornalisti. Non si capiva il perché di tanta rabbia”.

E ancora: 

Il dottor Jekill e mister Hyde. Davvero portava pacchi di cocaina da Napoli a Milano, davvero conosceva Melluso, davvero faceva sparire i milioni incassati? Lo stesso Raffaele Cutolo lo ha scagionato. Appunto, Raffaele Cutolo! Non è possibile che un uomo serio come lui si sia punto un dito per farne uscire una goccia di sangue mentre pronunciava la formula di associazione alla camorra. Lui laureato, divo della Tv. Lui che da tempo non beve vino e non mangia carne. Eppure è proprio questo che sostennero Pasquale Barra e i giudici del tribunale di Napoli. Del resto non era vegetariano anche Hitler?

“Oggi non sono bastati i processi a risolvere, agli occhi dell’opinione pubblica, il “caso Tortora”. E non dobbiamo stupircene: tutta la sua vita è stata segnata da squarci di bianco e da macchie di nero, da studi universitari e da smoking verde pisello, da folli amori e da separazioni. Perché non dovrebbe essere, l’ineffabile Enzo Tortora da Genova, nello stesso tempo colpevole e innocente? Pensiamoci su.” 

Un solo errore
Venticinque anno sono passati da quella notte e il ricordo di Enzo Tortora, della sua carriera così come della sua odissea giudiziaria è andato via via sbiadendo. E’ vero che il suo cognome è divenuto il simbolo della giustizia ingiusta, ma molti lo hanno evocato a sproposito. “Sono come Tortora!” Si è sentito spesso ripetere da parlamentari raggiunti da avvisi di garanzia e che mai si sono sognati di rimettere il loro mandato per affrontare senza immunità il proprio processo. E più che i rigurgiti colpevolisti di qualche estemporaneo “onorevole”, a pesare come insopportabile è stato il silenzio di quanti avrebbero avuto la possibilità di onorare la memoria di una grande giornalista, di un’emblematica vittima della giustizia all’italiana. Dei suoi colleghi l’unico che in questi anni abbia pubblicamente (e ripetutamente) chiesto scusa alla famiglia di Tortora è stato Paolo Gambescia. “Ho contribuito a distruggere un uomo”, ammette. Non sono stato il solo, certo, ma questo non mi assolve. Niente potrebbe assolvermi. Si è trattato del più grosso errore della mia carriera, commesso nei confronti sia dell’uomo che della mia stessa professione. Sono infatti venuto meno alla prima regola del giornalismo: interrogarsi costantemente sulle cose che accadono e non credere a nulla fino a quando non sono state accuratamente verificate le fonti e i fatti. Il dolore che ho provocato con i miei articoli non potrà mai essere risarcito. Posso solo dire che da allora ho sempre letto in controluce gli atti processuali (dando ascolto alla versione degli avvocati difensori), ho seguito con maggiore distacco l’attività degli uffici giudiziari, mi sono rifiutato di pubblicare le intercettazioni telefoniche quando riguardavano la vita privata della persone. E una volta divenuto direttore non mi sono mai stancato di ripetere ai miei cronisti che non mi importava di prendere un “buco” dalla concorrenza: l’importante era semmai essere sempre sicuri di quello che avremmo pubblicato.

Gambescia il peso degli articoli scritti in quegli anni continua a portarselo addosso. E’ però il solo. Gli altri giornalisti – che come lui e più di lui si sono resi responsabili di quello strazio alla verità e alla persona – hanno invece preferito una veloce scrollatina di spalle. Hanno dimenticato, convinti che lo abbiano fatto anche i loro lettori.

“Enzo rappresenta un rimorso nazionale”, osserva nel 1988 sua sorella Anna. “Si è approfittato della sua morte per seppellirlo definitivamente. Avevo proposto a Rai 2 un programma in tre serate per ricordare le tappe della sua carriere televisiva. “Tre serate?” hanno chiesto sbalorditi. Evidentemente sono troppe per un uomo che a Rai 2 ha dedicato anni e anni di lavoro. Ho proposto che venisse intitolato a lui lo studio Fiera 2, dove Enzo ha fatto per tanto tempo Portobello. Niente da fare. E’ vergognoso ma non mi sorprende: il ricordo di Tortora crea imbarazzo e disagio”.

Dottor Fontana, cos’ha da dire dieci dopo la morte di Tortora? “Non ci fu errore giudiziario, come molti si ostinano a ripetere.”

Vent’anni sono passati dall’ultimo colpo di tosse del suo cittadino più popolare e Genova non ha ancora tributato a Tortora il tardivo riconoscimento dell’intitolazione di una piazza, di una strada, fosse anche un carugio del suo centro storico. Paola Balbi assessore pidiessino al decentramento, respinge nel 1992 una prima petizione popolare. Motivo? “Enzo Tortora non è abbastanza conosciuto in campo nazionale.” Il 27 luglio 1994 il Consiglio comunale boccia un’analoga mozione del consigliere della Lista Pannella, che pure partecipa della maggioranza che sostiene il sindaco (e giudice) Adriano Sansa. Questa volta il pretesto è più raffinato. Siamo in piena rivoluzione giustizialista e figuriamoci se si può dedicare una strada alla vittima di un clamoroso errore giudiziario. Per il capogruppo Pds Ubaldo Benvenuti “parlare di giustizia giusta proprio mentre è in atto un conflitto tra governo e giudici suona come una presa di posizione contro questi ultimi”. A centinaia le telefonate indignate dei lettori intasano i centralini dei quotidiano locali. Silvia Tortora scrive pubblicamente al sindaco:

Non ero al corrente dell’iniziativa e debbo dire che ormai in undici anni dall’inizio del caso Tortora ho fatto un po’ il callo a questo genere di rimozioni collettive. Quindi mi permetta di non esprimerle proprio nulla. Perché nulla mi interessa delle sue delibere e tanto meno di quelle del suo consiglio comunale. Leggo però che la motivazione presa per rifiutare una titolazione stradale a mio padre sarebbe la seguente: “Per non entrare nella polemica con i giudici di Mani pulite”. Mi sfugge il nesso. Non mi risulta che tra il “caso Tortora” e il lavoro dei giudici di Mani pulite ci sia mai stato alcun tipo di legame. Ma una cosa è certa: la mamma dei fessi è sempre incinta.

Il pidiessino Michele Casissa replica qualche giorno dopo su Il Secolo XIX che “la richiesta è inopportuna e strumentale. Inopportuna perché entra nel merito di fatti giudiziari ed è oggettivamente un attacco giudiziario generalizzato ai giudici, continuativo di quella strategia pannelliana e berlusconiana che li definisce assassini e un’associazione a delinquere. Strumentale perché presentata due giorni dopo l’emanazione del decreto Biondi. Rinviamo il tutto a un momento più sereno”. Alla fine, insomma, anche il piccolo Big Ben di Palazzo Tursi ha detto stop. E i suoi ultimi dolenti rintocchi verranno evocati sei anni dopo da Anna Tortora in un’amara lettera a Il Secolo XIX:

Chi pensa che gli italiani siano insensibili o immemori della storia patria si sbaglia. La netta smentita giunge dai cittadini della Circoscrizione centro est di Genova che hanno posto un fiero “no” alla titolazione dell’ultimo tratto di via Pastrengo a Enzo Tortora, che in quella via nacque nel 1928. Quei cittadini sono insorti a difesa del “contesto storico” che caratterizza le vie adiacenti: se il Risorgimento avesse avuto una adesione così appassionata e decisa, fare l’Italia (si fa per dire) sarebbe stato un gioco da ragazzi. A ben leggere, però, dietro alle fanfaronate della retorica risorgimentale, nell’indignata petizione dei neo-patrioti si evince una ben più realistica preoccupazione. Quella di dover sborsare qualche palanca (già da loro quantificata in “centinaia di biglietti da mille”) per provvedere al cambiamento di indirizzo sui documenti ufficiali e alla sostituzione dei biglietti da visita. Mi chiedo sommessamente a quante tonnellate ammontino le scorte cartacee di quella dozzina di inquilini travolti da quella che loro stessi in una pubblica lettera non hanno esitato a definire “una rivoluzione”. Rivoluzione di tale entità da renderli decisi a portare il caso (cito le loro parole) “a livello nazionale”. Tribunale di Strasburgo dei diritti umani? Onu? Richiesta di intervento di caschi blu? Siamo in una commedia di Govi, solo che un sentimento di pena prevale sulla mia voglia di ridere. Pena aggravata nel leggere i suggerimenti alternativi che i cittadini della circoscrizione est non lesinano (tanto non costano nulla!) su dove piazzare lo scomodo cittadino. Un giardinetto, dicono. E perché non uno scantinato, un retrobottega, un passo carraio? Un certo dott. Siri suggerisce di porre una targa sul palazzo dove mio fratello nacque. Buona idea. Gli ricordo però che due anni or sono fui io stessa a proporla, a titolo personale, insieme al giornalista Luciano Garibaldi. La risposta del caseggiato n. 7 di via Pastrengo arrivò tramite l’amministratore e fu la seguente: i condomini, riunitisi sul caso, bocciarono la mia proposta con la motivazione che la targa avrebbe (testualmente) “sporcato” l’estetica del palazzo. Dopo undici anni di silenzi, latitanze, tentennamenti, tira e molla, dopo che Milano ha da tempo saputo onorare il cittadino Tortora nel modo più degno, è giunto il momento di dirvi: fatela finita e toglietevi questo disturbo. Dopotutto siamo sicuri che Tortora sia nato a Genova? Forse l’ha scambiata per Stoccolma. Nessuno è perfetto, e anche un giusto come Enzo Tortora ha commesso uno sbaglio.

“Pensi di aver commesso qualche errore?” “Sì, il passaporto. Aver preso un passaporto sbagliato.” (Enzo Tortora a Enzo Biagi, Il caso, Rai 1, 12 aprile 1988). 

Da : Applausi e sputi di Vittorio Pezzuto, Sperling & Kupfer, 2008, pagg. 520, 15 euro


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