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Il Sessantotto degli altri / 2
di PIERLUIGI MENNITTI

[09 lug 08] Il blocco est europeo non è mai stato quel monolite compatto che la propaganda sovietica amava rappresentare. Già nei primi anni del dopoguerra, le rivolte di Berlino Est e della Polonia avevano mostrato la riluttanza di ampi settori della popolazione ai nuovi schemi economici e politici. Il primo violento scossone fu quello di Budapest, nel 1956, che determinò l’intervento dei carri armati sovietici per sedare una rivolta che stava capovolgendo il regime. A ovest ci si commosse e ci si emozionò. Poi si voltò la faccia dall’altra parte e anzi inglesi e francesi ebbero la bella idea di sbarcare a Suez e di distrarre l’opinione pubblica con un’altra crisi internazionale. Gli europei dell’est protestavano con le gambe, quando non riuscivano a scendere in piazza. Da Berlino Est ogni anno migliaia di operai, tecnici, carpentieri, insomma la forza lavoro specializzata, faceva le valige verso occidente. L’esodo mise in crisi l’economia della nascente DDR (la Repubblica Democratica Tedesca) e Walter Ulbricht dovette inventarsi il Muro per impedire l’emorragia di risorse umane. Lo tirò su in una notte, era l’agosto del 1961. Prima una barriera di filo spinato, poi una fila di mattoncini impilati uno sull’altro e col tempo quel complesso sistema di cemento armato, torrette d’avvistamento, fotoelettriche che fu il simbolo della divisione dell’Europa. Il Sessantotto non era ancora arrivato da ovest, per il momento il Muro serviva ad evitare che se ne andassero quelli dell’est. Non nacque per un motivo politico ma economico. Non serviva a impedire che i primi dischi dei Beatles arrivassero clandestinamente dalle parti di Alexanderplatz ma che gli operai di Alexanderplatz andassero a far ricca la Germania capitalista (e un po’ anche se stessi).

Non un blocco monolite, dunque ma società in qualche modo vive e differenziate tra loro, nelle quali, sotto la corazza omogenea del partito e dell’ideologia, si muoveva gente vivace, ricca di intuizioni e passioni, desideri e speranze. La vita di tutti i giorni era dura e standardizzata, i controlli della polizia segreta asfissianti, specie in alcuni stati come la Germania dell’Est dove la Stasi impiegava un numero spaventosamente alto di informatori. Eppure, nelle zone d’ombra lasciate libere dal controllo e dalla censura, proliferava una sorta di cultura alternativa. E’ in queste intersezioni che nasce e si sviluppa, dal 1967 in poi, il movimento di contestazione cecoslovacco. Che riprende dai coetanei occidentali stili, slogan, ideali e comportamenti per rovesciarli contro quello che lì era il potere. Ovvero lo Stato comunista. Con il paradosso che mentre ad Ovest, complice la guerra americana in Vietnam e il conservatorismo di mode e costumi, la contestazione prende di mira le istituzioni tradizionaliste e capitaliste prima di sfociare nell’idealizzazione utopistica dei maoismi, a Est accade l’opposto. La conservazione è comunista, il nemico è rosso.

In tutto l’emisfero orientale d’Europa, il processo di destalinizzazione crea l’illusione che una nuova strada possa essere percorsa. L’autoritarismo, il culto della personalità, i piani quinquennali, la nomenklatura, la dittatura del proletariato: tutto il bagaglio di famiglia che ha tarpato le ali del socialismo, inquinandone gli ideali e creando una società ingiusta, repressiva e anche povera, che non regge il confronto con quella occidentale. Nella contestazione cecoslovacca emerge una critica radicale al realsocialismo ma, diversamente da quanto accaduto tredici anni prima nella rivolta di Budapest, prevale il desiderio di rimanere nell’ambito dell’esperimento socialista. Un socialismo libertario, che s’illude di poter riacquistare innocenza e forza propulsiva tornando alle origini, scompaginando la sovrastruttura costruita da regimi che avevano creato e consolidato il potere di una élite fedele e asservita. Contro il popolo e contro quella stessa classe operaia nel cui nome quei regimi dicevano di operare. Questa è l’essenza della primavera di Praga, almeno fino a quando i carri armati di Mosca non squarceranno il velo dell’illusione, dimostrando che un altro mondo, al di fuori dell’ortodossia sovietica, non era possibile. (2. Continua).


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