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Robert Mugabe, chi è il padre-padrone dello Zimbabwe
di ANGELO M. D'ADDESIO

[30 giu 08] Robert Mugabe, l’ultimo vecchio dittatore, figlio dell’aparteheid, del panafricanismo e dei riflessi della guerra fredda si prepara ad autoconfermarsi presidente dello Zimbabwe, un Paese che, paradossalmente, senza di lui non esisterebbe. Un po’ Mandela, un po’ Chavez, marxista-leninista per pensiero economico, panafricanista esasperato dal Black Power in politica, la sua vita nasconde molteplici vicende significative che lo rendono molto più “uomo” di quanto non sembri. Robert Mugabe nasce nel 1924 nella missione cristiana di Kutama, figlio di un falegname che abbandonerà la sua famiglia quando egli aveva dieci anni. Introverso ed intelligente, Robert viene educato rigidamente dai gesuiti, a 17 anni si iscrive a Fort Hare dove si laureerà in inglese e storia nel 1951, cui seguiranno altre due lauree in Educazione ed in Economia. In Ghana, dove si reca ad insegnare nel 1958, conosce la donna che segnerà la sua vita, Sally Hayfron, figlia di un esponente politico del Movimento nazionalista di Nkrumah. Nel 1960 ritorna in Rhodesia e lì inizia la sua “seconda vita” di impegno e guerriglia. E’ fra i fondatori dello Zapu, “figlio” del National Democratic Party messo fuori legge dagli inglesi, mentre Sally al suo fianco organizza i movimenti delle donne di Salisbury (l’attuale Harare). E’ costretto a fuggire per le prime accuse di sovversione, dopo la nascita della sua prima figlia, che morirà a tre anni di colera. Nel 1963 si dissocia dallo Zapu del leader storico Nkomo, più disposto alla moderazione, e sceglie di formare lo Zanu, un partito oltranzista e filo-marxista sull’influenza dei movimenti di liberazione in Angola, Mozambico e dell’Anc in Sudafrica.

Mentre divampa la guerra fra etnie, la Rhodesia va verso l’indipendenza, il cui fautore è uno dei più accesi sostenitori dell’apartheid, Ian Smith, che, diventato primo ministro nel 1965, incarcera tutti i leader neri ed instaura un regime di tacita tolleranza con gli ex coloni inglesi. Mugabe, imprigionato, è costretto a separarsi da Sally Hayfron che fugge prima in Ghana e poi ottiene un breve permesso in Inghilterra. Un permesso che non le sarà mai rinnovato dal Foreign Office che sfrutterà la lontananza di Mugabe ed il caso diplomatico della moglie per trattenere Mugabe nello Zimbabwe, al fine di alimentare l’odio verso Smith. Un carteggio di 40 anni fa e pubblicato in virtù della Freedom of Information Act è la prova di come quelle lettere persuasive e supplichevoli sempre respinte dalla Gran Bretagna siano la prima delle cause dell’odio che coverà per i colonizzatori e per i bianchi. Nel 1970 riesce a fuggire. I movimenti ribelli uniti, fra epurazioni e vittime, non si fermano neppure quando Smith accetta di aprire il Paese alle elezioni multirazziali sotto pressione di Gran Bretagna ed Usa e Mugabe, a capo dei movimenti, spinge il vincitore delle elezioni, il moderato vescovo metodista nero Muzorewa, ad un più ampio compromesso che comprenda anche i membri dello Zanu e dello Zapu di Nkomo. L’intesa prevede una riforma agraria per 60mila ettari da destinare a gente di colore, l’abolizione dei seggi riservati ai bianchi e dell’incarico di primo ministro entro il 1987. Nel 1980, nelle nuove elezioni, Mugabe stravince ed è proclamata la Repubblica dello Zimbabwe. Leader di un Paese ricco nel suolo (primo produttore di grano e frutta tropicale) e nel sottosuolo (oro, cobalto, argento, cromo, platino), inizia a riformare il sistema sanitario e scolastico (l’alfabetizzazione arriva all’85 per cento). I neri iniziano ad occupare posti su posti ed a farsi una guerra di potere che lui gestisce abilmente, ma nel frattempo i due terzi degli inglesi fuggono via. Nel 1987 Mugabe rompe gli indugi, elimina la carica di primo ministro ed inizia la sua “terza vita”.

Nel 1991 avvia l’esproprio delle terre ai farmers bianchi, effettuato con violenze perpetrate da gruppi di guardie private che minacciano i coltivatori e saccheggiano le campagne. All’inizio, accorgendosi della scarsa esperienza dei neri in agricoltura, allenta i prezzi verso gli agricoltori bianchi, ma alla fine degli anni Novanta i piccoli coltivatori neri posseggono ormai l’80 per cento dei territori. E’ troppo tardi: il Fmi e la Gran Bretagna tagliano i finanziamenti e bocciano la riforma agraria. Il Paese al tracollo economico raggiunge un ritmo di inflazione del 1000 per cento annuo, la disoccupazione il 70 per cento, gli ammalati di Aids la sono il 35 per cento della popolazione e Mugabe in tutta risposta trasforma l’omosessualità in reato grave da 10 anni di reclusione. Si improvvisa leader anti-imperialista, cerca alleati nella Cina, nel Venezuela e nell’Iran. Negli anni seguenti si fa rieleggere con clamorosi brogli elettorali e violenze atroci. E’ ormai solo ma resta convinto che tutto che ciò che ancora va fatto nel Paese, può farlo solo lui. Verso lo Zimbabwe nutre un amore folle, tragico, grazie a quella che Doris Lessing ha definito “l’infinita pazienza del suo popolo”, oggi finita. La sua parabola simboleggia la sua vita: solo e sempre in guerra, senza amici, senza più una vera donna al suo fianco (Sally morirà nel 1992 ed ormai si era allontanata da lui), senza quel senso di rispetto e di internazionalità che ha ricevuto Mandela. Mugabe alla prova del potere ha scelto di essere un grande capo dell’Africa più vecchia e chiusa e non un leader popolare e moderno, ed oggi sembra saperlo anche lui. Ma la sua guerra personale contro un mondo, che per giunta non c’è più, non finirà mai. E l’insulso ballottaggio senza avversari, conclusosi con la vittoria-farsa di Mugabe, lo dimostra.


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