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Archiviate le primarie, parte la sfida Obama-McCain
di
ALESSANDRO MARRONE

[17 giu 08] Con il definitivo ritiro di Hillary Clinton la stagione delle primarie si chiude per lasciare spazio ad una campagna presidenziale che sarà probabilmente altrettanto incerta e appassionante. Barack Obama ha conquistato la nomination democratica per la Casa Bianca, ma non ancora il consenso di tutta la base del partito, sollevando al tempo stesso grandi aspettative e grande diffidenza. John McCain ha costruito la sua candidatura distinguendosi dall’amministrazione Bush e lanciando un ponte tra il Partito repubblicano e gli elettori indipendenti e moderati. Questi i punti di partenza di una campagna elettorale in cui non si può dare nulla per scontato, a cominciare dal risultato. Secondo gli ultimi sondaggi Obama ha infatti tra i 2 e i 6 punti di vantaggio su McCain, un margine che certo non permette al candidato di colore di dormire sonni tranquilli visti i due punti interrogativi che pendono sulla sua persona: le donne democratiche voteranno compatte colui che ha impedito la prima candidatura femminile alla Casa Bianca? E la presenza di un candidato di colore spingerà una quota di elettori bianchi lontani dalla politica a votare istintivamente McCain?

Inoltre, grande importanza avranno sulla campagna elettorale due dinamiche che sfuggono al controllo dei candidati: quella economica e quella in Iraq. Da un lato infatti l’economia americana sta rallentando fortemente, ma non è ancora chiaro se si è all’inizio di una recessione e quale sarebbe la sua portata. L’andamento dell’economia può suscitare domande politiche diverse in alcuni segmenti dell’elettorato, ad esempio meno tasse oppure più sussidi pubblici, rendendo le promesse economiche di Obama e McCain il motivo determinante della scelta di molti elettori. Dall’altro lato le cose Iraq stanno andando meglio a un anno dalla strategia del surge -  a maggio 2008 il numero di vittime americane è stato il più basso dall’inizio della guerra – ma i progressi sul fronte della sicurezza e della riconciliazione politica sono ancora fragili. Se tali processi si consolideranno, McCain potrà proporre con più credibilità di ritirare i soldati solo una volta stabilizzato il Paese, verosimilmente entro il 2013, e Obama sarà più facilmente accusabile di disfattismo. Se, viceversa, la situazione dovesse di nuovo precipitare, crescerà il consenso per il ritiro immediato delle truppe proposto da Obama e McCain si troverebbe in grave difficoltà.

Oltre ai voti raccolti su scala nazionale dai due candidati, occorre tenere conto che l’elezione del presidente americano si decide di fatto Stato per Stato. Infatti, in ognuno dei 50 Stati il candidato che ottiene più voti conquista tutti i “voti elettorali” che quello specifico Stato esprime nel conteggio complessivo. In totale si hanno 538 voti elettorali, distribuiti proporzionalmente in base ai cittadini di ogni Stato, e per vincere occorrono quindi almeno 270 voti elettorali. Nelle ultime quattro elezioni, il candidato repubblicano ha contato tradizionalmente sui voti elettorali di molti stati dell’America centrale e meridionale a partire dal Texas (34 voti elettorali). I pochi bastioni dei democratici invece sono da sempre la California (55 voti elettorali), lo stato di New York (31), nonché l’Illinois (21) che ha eletto proprio Obama al Senato. La Florida (27) e gli Stati attorno ai Grandi Laghi si sono trovati negli ultimi 16 anni in bilico tra i due partiti – i cosiddetti “swing states” - ed è qui che McCain punta le sue carte. Obama infatti è stato battuto dalla Clinton sia in Pennsylvania (21) che in Ohio (20), Stati vinti nelle elezioni del 2004 con solo il 2 per cento di scarto rispettivamente dai democratici e dai repubblicani.

Nel determinare le condizioni di partenza di questa campagna elettorale ha giocato un ruolo determinante Hillary Clinton. Una donna che sei mesi fa aveva in mano tutte le carte per ottenere la nomination democratica, che ha lottato con le unghie e con i denti di fronte all’emergere di una leadership inattesa come quella di Obama, e che testardamente è voluta arrivare fino all’ultima primaria democratica anche quando si era capito che la sorte aveva sorriso, anche solo per poche decine di delegati, al suo rivale. Una donna che nel suo ultimo discorso ha ricordato appassionatamente le ragioni della sua candidatura, ma al tempo stesso ha dato un pieno, chiaro e caldo sostegno al suo ex rivale. Alcuni potranno ora imputarle di aver spaccato il Partito democratico e di aver utilizzato verso Obama accuse – “inesperto” “naive” – facilmente riutilizzabili dagli avversari repubblicani. Tuttavia il senatore dell’Illinois deve una parte della sua popolarità all’appassionante lotta che lo ha contrapposto alla senatrice di New York, e se in ogni angolo d’America (e d’Europa) oggi tutti sanno qualcosa di chi è e cosa vuole Obama è anche perché ha dovuto dare il meglio di sé contro di lei. In fin dei conti, guardando alle cose a mente fredda, la storia americana deve a Hillary Clinton l’aver fatto sì che una donna fosse per la prima volta sul punto di essere candidata alla presidenza. Un traguardo che la democrazia americana ha mancato solo perché ne ha tagliato un altro altrettanto importante: avere il primo nero candidato alla Casa Bianca.


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