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Dopo le elezioni la Macedonia sul ciglio del burrone
di LUCA MARTINELLI

[11 giu 08] Periodo di elezioni anticipate nei Balcani: dopo la Serbia, è l’ora della Repubblica di Macedonia. L’estremità meridionale dell’ex Jugoslavia ha scelto di andare anch’essa allo scioglimento anticipato del Parlamento, in seguito al “mancato invito” (leggasi: veto della Grecia) a prendere parte alla Nato. Skopje fa parte fin dal 1995 della Partnership for Peace (la “sala d’aspetto” della Nato) e nel 1999 le è stato riconosciuto lo status di candidato assieme all’Albania. L’ingresso avrebbe dovuto essere ratificato definitivamente al summit di Bucarest dell’aprile scorso, ma la Grecia ha ancora una volta opposto il proprio veto. Atene non accetta fin dal 1995 che la Repubblica di Macedonia utilizzi i termini “Macedonia” e “macedone”, tanto che è spesso menzionata nei documenti diplomatici con la locuzione Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia (Former Yugoslav Republic of Macedonia, Fyrom). L’ennesimo rifiuto subito all’integrazione nel sistema euro-atlantico ha portato allo scioglimento del Parlamento con due anni di anticipo. La campagna elettorale è stata però segnata - nel classico totale disinteresse dei media occidentali - da gravi episodi di violenza. Larga parte degli scontri sono avvenuti fra attivisti dei due principali partiti albanesi, l’Unione democratica per l’integrazione (Bdi) e il Partito democratico degli albanesi (Pdsh). Dopo appena dieci giorni di campagna elettorale, già si registravano decine di incursioni, risse, perfino sparatorie contro case e negozi di membri di entrambe le formazioni politiche. Il 12 maggio, due giorni dopo l’inizio della campagna elettorale, il segretario della Bdi, Ali Ahmeti, è stato addirittura oggetto di un attentato. Incidenti minori si sono registrati anche da parte macedone.

Gli osservatori internazionali hanno rilasciato un giudizio impietoso nei confronti del governo di Nikola Gruevski (Partito democratico per l’unità nazionale macedone, Vmro-Dpmne), incapace di garantire una campagna elettorale ed operazioni di voto sicure e tranquille. Solo nel giorno delle elezioni, il primo giugno scorso, si è avuta notizia di un morto, cinque feriti e circa 30 arresti su tutto il territorio nazionale. La stessa commissione elettorale è stata costretta a sospendere le votazioni in alcuni distretti: a Bukovic, 30 persone sono entrate nei seggi ed hanno rubato tutto il materiale elettorale; a Laskavic, vari seggi sono stati oggetto di colpi di arma da fuoco; molteplici irregolarità (fra cui anche tentativi di brogli) si segnalano in un’altra decina di villaggi dell’area occidentale (a maggioranza albanese). Nei distretti interessati, le operazioni elettorali verranno ripetute il prossimo 15 giugno. Ad ogni modo, fa sapere la commissione elettorale, le irregolarità registrate non avranno una influenza determinante sugli esiti. Stanti i risultati attuali, la coalizione multietnica che fa capo al Vmro-Dpmne ha ottenuto una vittoria schiacciante sulla coalizione dei socialdemocratici (Sdsm): 48,2 per cento (e 64 seggi su 120) contro un modesto 22,2 per cento (e 28 seggi). Le due formazioni albanesi, Bdi e Pdsh, hanno ottenuto entrambe 13 seggi. Il premier Gruevski ha già dichiarato la propria vittoria e ha confermato il Pdsh come suo alleato, in una coalizione governativa che appare molto più stabile rispetto a due anni fa.

L’analisi del voto però non rassicura sulla situazione interna. Già nel 2001, l’Esercito di liberazione nazionale (Uçk, una formazione albanese legata all’Uçk kosovaro) si rese protagonista di una insurrezione durata circa dieci mesi e che portò al dispiegamento di una forza di interposizione europea nella Macedonia occidentale. I rinnovati scontri interni non fanno presagire nulla di buono, specie se si considera che larga parte dell’Uçk è oggi confluito nella più “rispettabile” Unione democratica per l’integrazione - che viene comunque accusata di continuare a perseguire il sogno della “Grande Albania”. Gli stessi toni che intercorrono fra il premier Gruevski e il segretario della Bdi Ahmeti sono incandescenti, scanditi da reciproche accuse quotidiane. Va poi considerato l’impatto che hanno avuto la mancata accettazione in ambito Nato e le critiche nell’ultimo rapporto Ue sulla Macedonia. Jean-Arnault Dérens, nel suo editoriale sul Courrier des Balkans del 26 maggio scorso, teme che questi due fattori internazionali portino ad un ulteriore radicalizzazione dei rapporti fra macedoni ed albanesi, se non addirittura allo scoppio di un nuovo conflitto armato interno alla minoranza albanese. “Oggi la Macedonia va peggio che mai”, scrive Dérens, “e l’ipotesi di una ripresa dei confronti armati non può più essere scartata [...]. Se questo scenario catastrofico si verificasse, si vedrebbe[ro] tutti i leader europei chinarsi nuovamente su quel dossier macedone che hanno lasciato a marcire per anni, e in particolare rifiutandosi di richiamare Atene alla serietà ed alla responsabilità”. La Macedonia resta, dunque, sul ciglio del burrone e rischia di precipitarvi ogni giorno. Se da una parte bisogna sperare che il premier Gruevski mantenga finalmente le proprie promesse e faccia le riforme che l’Ue chiede a gran voce da tempo, dall’altra proprio Bruxelles deve avere il coraggio di affrontare di petto la questione con la Grecia, imponendosi sulle logiche nazionali e stabilendo una data certa per l’adesione della Repubblica di Macedonia.


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