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di Alessandro Marrone

 

[27 feb 08]

Sulla via del Texas il gioco si fa duro

 

In campo democratico il fairplay e le gentilezze tra i candidati – “siamo tutti democratici, siamo tutti persone per bene” dicevano Hillary e Barack qualche settimana fa – sembrano essere scomparsi ora che la lotta politica si fa all’ultimo sangue. Nello scorso fine settimana, in un dibattito ad Austin, Texas, Clinton ha pesantemente accusato Obama di copiare i migliori passi dei suoi interventi da discorsi altrui, ed ha ribadito indirettamente che il senatore dell’Illinois, al contrario di lei, è bravo solo a parole ma non con i fatti. Obama ha risposto che la prima accusa era “sciocca”, e che con la seconda la sua rivale stava insultando i milioni di americani che l’avevano già eletto al Senato. In un’altra occasione la senatrice di New York aveva senza mezzi termini detto “vergognati Obama!” per i colpi bassi che i sostenitori del candidato di colore le avevano riservato. Il livello dello scontro politico tra i due, pur con frequenti sorrisi e abbassamenti di toni, si sta alzando man mano che ci si avvicina alle primarie del 4 marzo in Texas e Ohio. I due Stati, su cui fino a poco tempo fa Hillary puntava per mettere la parola fine alla corsa di Obama, vedono ora un testa a testa tra i due in Texas e un vantaggio consistente ma in costante diminuzione in Ohio.

In quest’ultimo contesto, secondo quanto riportato dal Financial Times del 24 febbraio, Clinton può contare adesso su 7 punti di margine contro i 20 di un mese fa, con un terzo degli elettori democratici ancora indecisi. Lo Stato industriale affetto da anni di recessione vede una forte presenza di working class, operai e lavoratori dipendenti dal reddito medio-basso, finora lo zoccolo duro dell’elettorato di Hillary che si sta però lentamente erodendo. Cresce infatti lo scetticismo sul fatto che la Clinton – come anche Obama del resto – possa impedire alla Cina e alle multinazionali di portare via i posti di lavoro americani diventati troppo costosi nell’economia globalizzata. Con il sostegno al candidato afroamericano in crescita in tutti i segmenti dell’elettorato democratico, compresi gli anziani e le donne, la senatrice di New York non può permettersi un pareggio nel voto operaio, perché ciò significherebbe la sconfitta nella contesa generale. Una sconfitta che per la maggior parte degli analisti, e anche secondo alcune fonti interne allo staff della candidata, segnerebbe la fine della sua corsa per la nomination. Sarebbe però prematuro dare per certa la fine politica dell’ex first lady, seguendo l’infatuazione per Obama che ha incantato tanto i media americani che quelli italiani. Clinton ha un seguito popolare delle stesse dimensioni di quello del rivale, l’appoggio di ampie fasce del mondo democratico (sebbene Obama abbia raccolto 137 milioni di dollari di finanziamento contro i 118 di Hillary) e una piattaforma politica solida e chiara. Inoltre non è detto che la discesa in campo di attori e cantanti di Hollywood a favore di Obama, di cui magnificano le doti, rifletta il comune sentire del popolo americano.   

Un’ulteriore variabile che si è aggiunta al complesso quadro democratico è la candidatura alle elezioni presidenziali, come indipendente, del leader populista Ralph Nader. Impegnato nella difesa dei consumatori e dell’ambiente, ed estremamente critico dell’establishment politico ed economico, Nader si colloca alla sinistra di entrambi i candidati democratici. Si presentò già nelle elezioni del 2000, ed il 2,7 per cento di voti che ottenne all’epoca fu, secondo molti analisti, sottratto a Gore e decisivo quindi per assegnare alcuni Stati in bilico a Bush. Oggi, tuttavia, il peso di Nader sarà probabilmente molto meno influente di quanto si possa pensare dalla riva europea dell’Atlantico. In primo luogo già nel 2004 il suo seguito fu nettamente inferiore alla performance di quattro anni prima e nulla indica che la parabola discendente dell’avvocato 74enne abbia cambiato inclinazione. In secondo luogo l’istanza di cambiamento verso lo status quo di Washington è già fortemente incarnata da Obama con i suoi discorsi, la sua pelle scura ed i suoi 46 anni. Infine, nel complesso rimane ben poco spazio politico per candidati terzi di fronte all’appeal e alla forza dei due front runner già in corsa, come ha già sperimentato a sue spese Edwards.

Nel campo repubblicano invece McCain sta sperimentando le prime battaglie da candidato in pectore del Partito repubblicano alla Casa Bianca. Che la corsa interna al Grand Old Party sia ormai praticamente chiusa suo a favore è testimoniato dal fatto che il New York Times, il principe dei quotidiani liberal, sia passato dall’endorsement del senatore dell’Arizona al gettare fango sulla sua candidatura. In un articolo a nove colonne, il quotidiano newyorkese ha parlato di una presunta storia d’amore di otto anni fa tra McCain e la lobbista Vicky Iseman, senza citare una sola prova né un solo testimone ma usando esclusivamente fonti anonime per dire che lo staff del candidato repubblicano all’epoca “sospettò” che vi fosse una relazione e agì per allontanare la lobbista. Nello stesso tempo i democratici hanno presentato un ricorso federale contro McCain accusandolo di aver violato la legge sul finanziamento dei candidati, accusa abbastanza grottesca in quanto rivolta al promotore di leggi bipartisan proprio per la limitazione e la trasparenza del finanziamento ai politici. Il senatore dell’Arizona ha smentito nella maniera più assoluta ogni favoritismo o rapporto extraconiugale con Iseman, a suo dire “un’amica”, e ha ribadito di aver sempre rispettato la legge sfidando gli accusatori a fornire una sola prova delle loro accuse. Quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare, e se McCain è sopravvissuto a cinque anni di fango nel Vietnam non si fermerà certo per quello gettatogli addosso dal New York Times.



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