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da Ideazione novembre-dicembre 2000
Progetto libertà
intervista a SILVIO BERLUSCONI di LUCIANO LANNA
[21 apr 08] L’ottimismo della libertà: è un progetto ma è anche la particolare empatia che emerge dall’incontro diretto. Soprattutto nel sorriso, lo stesso che si vede sui manifesti che tappezzano le città italiane: un sorriso che rispetto al 1994 è forse meno ingenuo, ma non per questo meno rassicurante. Anzi. La sua naturale vocazione alla comunicazione non riesce a nascondere la consapevolezza di essere un po’ come l’iceberg del paese reale. Con tutti i suoi meriti: il lavoro, il rischio, la capacità di cogliere al volo le occasioni. E con tutte le sue attese e speranze: quelle di procedere nella modernizzazione e nello sviluppo della nazione, quelle di fare emergere tutte le energie sepolte della società civile, tutta la capacità e la voglia creativa di un “paese speciale”…
Nasce anche da questo lo spontaneo e contagioso ottimismo di Silvio Berlusconi, per molti disarmante. Un ottimismo che fa saltare e mette in crisi gli apparati e le dietrologie della politique politicienne, quella di chi ha deciso – rassegnato – che non ci può essere un’Italia migliore dell’attuale.
È in questo quadro che il berlusconiano “ottimismo della libertà” punta a svolgere, come lui stesso promette in questa intervista, una vera e propria rivoluzione copernicana della politica italiana. Un obiettivo già avviato con il grande merito di avere imposto la centralità del “fattore libertà”. Se prima tutti la evocavano come un valore astratto o la riducevano ad una categoria ideologica, adesso la libertà è percepita come una vera e propria “questione politica”. Quella su cui, in fondo, si gioca la partita per il futuro del paese.
Presidente
Berlusconi, oggi in Italia si proclamano liberali non solo quelli che hanno
sempre ignorato il liberalismo, ma anche quelli che lo hanno sempre
contrastato. L’affermazione del principio di libertà si è in qualche modo
generalizzata. C’è però allo stesso tempo anche la sensazione comune che in
Italia il “ viver libero” sia in realtà compromesso. Siamo di fronte a due
interpretazioni e a due prassi autentiche della libertà e delle libertà?
Occorre fare chiarezza. Noi che liberali lo siamo da sempre e lo resteremo
sempre siamo obiettivamente su di un piano diverso da quello sul quale
operano gli eredi del comunismo. Per questi, anche per i casi – che non sono
tantissimi – di onesto ripensamento, va ribadito che proclamarsi liberali è
il risultato del fallimento della loro ideologia. La conversione per molti
si esaurisce nella parola, perché nella sostanza si limitano a
“rappresentare” presunte libertà condizionate, le libertà di alcune
categorie, ma non manifestano alcuna intenzione d’impegnarsi a “liberare” la
società dallo statalismo e dalle burocrazie soffocanti. Si pensi
all’eccessivo carico fiscale, allo strapotere delle burocrazie, al crescente
controllo sulla privacy dei cittadini, al proliferare delle norme che
agiscono sulla vita quotidiana. Noi, invece, ci dichiariamo liberali perché
abbiamo una visione precisa dei valori della persona, della politica,
dell’economia. E sappiamo di dover tenere questa visione sempre presente
nella vita personale e nell’impegno politico. Abbiamo scelto la libertà con
il cuore e con la ragione.
Qual è allora
il problema storico della libertà oggi in Italia? È quello dei diritti delle
“minoranze protette” tendenzialmente rappresentate dalle sinistre o quello
della riduzione delle libertà sociali, quali la libertà d’impresa, di
lavoro, di istruzione?
È sulla libertà che si fonda tutta la nostra visione politica ed il rispetto
della libertà costituisce per noi il metro di giudizio ultimo di ogni
società. Forse nessuno ha espresso meglio il valore della libertà di quanto
fece Tocqueville ricordando che chi ricerca nella libertà qualcos’altro che
non sia la libertà stessa è nato per servire. Per noi, perciò, la libertà
non è qualcosa di generico o di settoriale, ma è una condizione individuale,
di ogni persona e di tutte le persone. Ciò significa che tutti debbono
essere liberi di fare l’uso che preferiscono delle risorse e delle
conoscenze che legittimamente posseggono. Con un solo vincolo: non ledere i
diritti degli altri. In questa interpretazione non c’è spazio per una
visione di libertà concessa dall’alto, come di fatto propone la sinistra. La
libertà non può essere concepita come una delega, non proviene neppure dallo
Stato perché è anteriore ad esso, è un diritto naturale che ci appartiene in
quanto esseri umani. Lo Stato deve riconoscerlo e difenderlo per essere
considerato legittimo e democratico e non un tiranno arbitrario. Ritengo che
lo Stato debba essere al servizio dei cittadini e non viceversa e che il suo
servizio si debba naturalmente esprimere nella tutela delle libertà sociali,
che riguardano la famiglia, la scuola, l’impresa.
Lei non è un
professionista della politica, ma da imprenditore ha sempre in realtà
manifestato un impegno politico nella società italiana, come dimostra la sua
biografia personale. Qual è stato il filo rosso del percorso seguìto, quale
la ragione ideale di questo impegno?
Mi considero – mi passi l’enfasi – un combattente per la libertà. Nel 1948
avevo dodici anni e ricordo che percepii bene che la posta in gioco era
alta. Soprattutto mi era chiaro che il 18 aprile l’Italia era chiamata a
scegliere l’Occidente e la libertà. Andavo a scuola dai Salesiani e lì avevo
conosciuto sacerdoti che raccontavano a noi ragazzi quel che accadeva al di
là della “cortina di ferro”. Molti religiosi, infatti, sostavano a Milano
provenendo dall’Est e soggiornavano nel nostro collegio prima di ripartire
per altre destinazioni. Da loro – sacerdoti russi, polacchi e di altre
nazioni dell’Europa orientale – ho ascoltato i racconti di quanto accadeva
nei paesi soggetti al totalitarismo comunista. Storie di crimini e di
tragedie provocate da una visione politica che ha rappresentato l’antitesi
totale della libertà, messe in atto dai sostenitori di una ideologia folle
che – una volta raggiunto il potere – scatenava la guerra contro il suo
stesso popolo per cambiare l’umanità, per costruire – idea disumana – l’uomo
nuovo. Ho ancora molto viva la memoria di un religioso che mi raccontò come,
davanti a lui, furono assassinati i suoi genitori. Allo stesso tempo mi
rendevo conto di quanto stava accadendo in Italia e feci la mia prima scelta
di campo, schierandomi con chi combatteva per la libertà e l’Occidente. In
quei giorni con altri ragazzi della scuola e dell’oratorio mi mobilitai per
affiggere manifesti che mi affascinavano molto perché comunicavano una
straordinaria, bellissima parola: libertà. Subimmo anche delle aggressioni
da parte di attivisti comunisti che volevano impedirci di affiggere quei
manifesti con la parola magica.
Essa ha poi segnato tutte le tappe della mia biografia: dalla scelta di lavorare nel mondo dell’impresa a quella di mobilitarmi a favore del Giornale, il quotidiano fondato da Montanelli con una pattuglia di giornalisti che avevano lasciato il Corriere della Sera in polemica con il compromesso storico ed il clima di intimidazione ideologica imposto in quegli anni dalla sinistra. Assunsi questa posizione, costituendo comitati di cittadini a sostegno del Giornale, quando avevo quarant’anni e già tre lustri di successi imprenditoriali alle spalle e lo feci spinto solo dalla volontà di garantire una libera voce di dissenso. Entrai dopo nella società editrice e fui determinato a farlo per garantire la vita del quotidiano, che rischiava di chiudere per l’ostracismo decretato dai poteri politici ed economici in auge all’epoca. Con le stesse motivazioni di sostegno alla stampa libera, alla fine degli anni Settanta partecipai alla fondazione del Sabato, il settimanale vicino a Cl. Lì conobbi don Giussani e presi parte con impegno ai seminari che il suo gruppo organizzava sul dissenso nei paesi dell’Est.
Poi sono venute le battaglie per la libertà di comunicazione e di antenna sino all’impegno diretto in politica nel 1994. Posso dichiarare in coscienza che la libertà è stata la ragione permanente della mia vita nel lavoro e nella politica.
Individua un
episodio particolare che lo ha determinato all’impegno politico?
C’è una fase che si è chiusa con la svolta politica della mia vita. Era
la fine del 1993, l’Italia aveva conosciuto Tangentopoli e aveva visto
penalizzata quasi tutta la classe dirigente dei partiti democratici di
ispirazione occidentale. Solo più tardi ci si accorse che la macchina
giudiziaria colpiva in modo selettivo e che la geografia della corruzione
coincideva nei suoi effetti con una geografia politica che risparmiava i
partiti post-comunisti, la parte della Dc che era stata sempre alleata con
il Pci e tutti quelli che accettavano la protezione dei nuovi padroni di
sinistra. Questi avevano fatto approvare una nuova legge elettorale, della
quale si erano svolte le prove generali con le elezioni amministrative
d’autunno. Venne a trovarmi il professore Urbani che mi illustrò le
conclusioni di uno studio dal quale emergeva che la sinistra, raccogliendo
il 34 per cento dei voti, aveva conquistato l’80 per cento dei comuni.
Urbani mi comunicò che, stante l’inesistenza di un blocco moderato, quel
dato si sarebbe ripetuto anche nell’elezione del nuovo Parlamento. La
notizia mi mise in allarme e mi fece comprendere che per l’Italia si
profilava una prospettiva sostanzialmente comunista, nonostante la corsa di
Occhetto a cambiare nome e simbolo al vecchio partito. Per giunta, sarebbe
stata una prospettiva continuista nei programmi e nelle persone, perché i
comunisti avevano avuto grandi responsabilità anche nella gestione della
fase precedente. I cittadini, invece, avevano interpretato Tangentopoli come
un’occasione di cambiamento. Promossi una lunga serie di incontri per
rimettere insieme quanto era ancora utilizzabile della classe dirigente dei
partiti della vecchia area di centro con l’intento di dar corpo ad
un’aggregazione moderata da opporre al blocco di sinistra. Né la destra
missina né la Lega Nord, che peraltro non comunicavano fra loro, avrebbero
potuto arginare il successo dei comunisti che sembrava inarrestabile. Non
pensavo di dovermi impegnare direttamente, ma che fosse necessario
adoperarmi perché nascesse in Italia il blocco dei moderati, immaginando che
ci fosse qualcuno in grado di rappresentarli e di guidarli. I segnali di
risposta furono flebili, i personaggi che avrebbero dovuto assurgere al
ruolo di protagonisti si mostrarono fragili e prigionieri delle vecchie
gabbie ideologiche, condizionati dal passato al quale peraltro guardavano
per recriminare sui privilegi perduti. Mi resi conto ch’erano stati spazzati
via a causa dell’ossequio alla prassi del compromesso con l’avversario
comunista, e ciò li rendeva incapaci di coltivare grandi aspirazioni quale
quella di garantire la libertà al loro paese. Come i fatti hanno dimostrato,
quello del ’94 fu un appuntamento con la storia che sarebbe stato fatale
disertare. Fui costretto, perciò, a “scendere in campo” personalmente perché
non ci fu un altro che sembrò adeguato a farlo e dichiarò esplicitamente di
volerlo fare. Molti strateghi di piccoli intrighi, nessun cavaliere della
libertà per dirla con linguaggio epico. È giusto che lo ricordino tutti: se
non ci fossi stato io a sbarrare la strada alla sinistra italiana, che aveva
ancora marcate connotazioni comuniste, il nostro paese avrebbe vissuto per
chissà quanto tempo una situazione istituzionale caratterizzata da un grave
deficit di libertà e di democrazia e oggi sarebbe fuori dall’Europa e da
qualsiasi consorzio internazionale.
Lei pone Forza Italia come movimento alternativo a una storia «tutta intrisa di statalismo e di un sistema amministrativo che è stato introdotto dalla Destra storica dopo l’Unità d’Italia e che ancora – sono parole sue – ci ingabbia per via dello statalismo che ha afflitto tutto il Novecento e che si è consolidato con Giolitti, con Mussolini, con la stessa Dc». Partendo da questa consapevolezza, come potrà determinarsi operativamente quella che lei ha definito la “rivoluzione copernicana” della politica italiana?
Affermo che, se vinceremo alle prossime elezioni politiche, realizzeremo una vera e propria rivoluzione dello Stato, facendo in modo che, riducendo il tasso di statalismo, si possa costruire quello che definiamo lo “Stato amico”. Metteremo mano alla vecchia organizzazione costruita sul centralismo e sulla burocrazia per eliminare le inefficienze e favorire un rapporto collaborativo con i cittadini. Sarà appunto una “rivoluzione copernicana” degli apparati dello Stato, dei suoi meccanismi di funzionamento, delle sue politiche fiscali. Rivedremo anche la legislazione, che è farraginosa ed eccessivamente ponderosa, un labirinto di regole in cui i cittadini non riescono ad orientarsi e gli stessi funzionari pubblici non riescono a districarsi. L’Italia limita la libertà di movimento dei suoi cittadini perché è uno dei paesi al mondo con più leggi. Per comprendere l’urgenza di queste riforme dobbiamo renderci conto di quel che è diventata l’amministrazione dello Stato: un pozzo senza fondo che rende molto poco in termini di servizi ai cittadini ed alle imprese, una macchina mangiarisorse che ne inghiotte la metà per alimentare sé stessa. Mentre con Internet sono state abolite le distanze di spazio e di tempo, l’amministrazione pubblica italiana sembra estranea a qualsiasi impulso di modernità.
Quanto ha
pesato sul suo orientamento politico generale, in particolare sull’adesione
al principio della sussidiarietà ed al modello dell’economia sociale di
mercato, la matrice cattolica?
Molto. Non solo ho ricevuto una formazione cattolica ma ho sempre
simpatizzato con i cattolici che in Italia non hanno mai avuto dubbi nel
tenere ferma la barra sui valori della libertà. Mi sono formato sui testi
sacri della libertà e dalla lettura delle opere di Vera Lutz e di Wilhelm
Röpke ho tratto la convinzione che il modello dell’economia sociale di
mercato sia il più rispondente alle condizioni del nostro paese. Ho sempre
avuto consapevolezza che bisogna prima produrre la ricchezza per poterla
distribuire ai meno fortunati, a coloro che per varie circostanze non sono
stati toccati dalla diffusione del benessere. Confermo che in cima alle
nostre attenzioni, al primo punto del nostro programma, c’è la cosiddetta
Italia dei poveri, quei sette milioni e mezzo di cittadini che vogliamo far
uscire dall’attuale condizione di povertà, quegli oltre tre milioni di
bambini ai quali vogliamo assicurare un futuro di dignità e di libertà.
Queste sono le idee che caratterizzano anche la nostra presenza nel Ppe
dove, a parità con gli spagnoli e dopo la Cdu tedesca, siamo la seconda
forza politica.
Non c’è
libertà senza una cultura libera. Come si deve ipotizzare in una prospettiva
liberale il rapporto tra politica e cultura, tra istituzioni ed
intellettuali?
Credo che ormai l’idea di una cultura organica alla politica sia stata
spazzata via del vento della storia. Resta soltanto come alibi alla sinistra
per giustificare l’arroccamento nella cittadella dei privilegi, ancora ben
salda nell’apparato culturale e mass-mediatico. Ma l’occupazione degli snodi
più importanti della cultura sta provocando un blocco insopportabile alla
naturale e vivace dialettica delle idee ed alla creatività del nostro paese.
In Italia, ad esempio, c’è stata una cultura anticomunista, persino a
sinistra, che non ha mai avuto piena cittadinanza storica e politica. Finché
una ideologia monoculturale continuerà a controllare le nomine e
l’attribuzione di incarichi nelle case editrici, nelle redazioni dei
giornali, nelle università e negli istituti culturali, non esisterà in
Italia una cultura veramente libera. D’altro canto non penso affatto che la
situazione possa normalizzarsi sostituendo gli uomini della sinistra con
altri di orientamento diverso. Ricadremmo nel loro errore. Occorre invece
sbloccare il meccanismo perverso liberalizzando e adeguando l’industria
culturale italiana al modello di un autentico “mercato delle idee”. Dobbiamo
fare in modo che le istituzioni aiutino la promozione della cultura e non si
riducano, svilendosi, alla pratica della sistemazione degli amici ed al
finanziamento degli istituti che si considerano organici alla parte politica
che in quel momento prevale. Indico anche l’opportunità di favorire e dare
spazio a tutta la cultura irregolare e non allineata, perché se ne
gioverebbe il paese nel suo complesso.
Caduti i muri e le ideologie, come si prospetta la battaglia per la libertà
nel Ventunesimo secolo?
Stiamo vivendo grandi cambiamenti per i quali è necessario attrezzarsi non
solo concettualmente. È ovvio che la stessa categoria della libertà debba
essere ripensata in questo orizzonte. Ad una prima rivoluzione tecnologica,
che ha segnato il passaggio dall’universo meccanico a quello informatico, è
succeduta immediatamente un’altra rivoluzione, quella digitale, che ha già
prodotto effetti nella vita di ogni giorno. Attraverso Internet tutti gli
uomini e i paesi del mondo si possono collegare liberamente per trasmettersi
tutto. Attraverso questo nuovo sistema c’è la possibilità di entrare in un
mondo straordinario dal quale si possono attingere tutte le informazioni e
scambiare tutte le conoscenze. La libertà stimola queste grandi opportunità,
delle quali essa stessa si alimenta. Ricordo che veniva considerata alcuni
anni fa una grave menomazione non possedere la patente di guida, perché ciò
comportava una limitazione della mobilità. Allora le reti erano quelle
autostradali. Oggi, oltre l’autostrada, c’è la rete telematica e per
ottenerne l’accesso sono necessarie alcune precise conoscenze: saper parlare
l’inglese, utilizzare il computer, navigare su Internet, conoscere i
princìpi basilari del mondo del lavoro e dell’impresa. È l’alfabetizzazione
del Ventunesimo secolo, quella che definisco delle “tre I”: inglese,
informatica, impresa. Consente di ottenere la patente per vivere la libertà
postmoderna.
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