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da Ideazione settembre-ottobre 1999
"Non possiamo non dirci anticomunisti"
intervista a
SILVIO BERLUSCONI di MAURO MAZZA
[21 apr 08] «Non possiamo non dirci anticomunisti». No, Silvio Berlusconi non ha alcuna intenzione di ammainare la bandiera che nel 1994 consentì a Forza Italia e al Polo delle libertà di vincere le elezioni contro la «gioiosa macchina da guerra» messa in moto da Achille Occhetto, allora leader di un partito che, ancora oggi, non ha saldato i conti col proprio passato. In questo senso «D’Alema non è più comunista», anche se «non è diventato socialdemocratico» e i Ds si ritrovano «in una sorta di terra di nessuno», con un ceto politico «che al leninismo ha sostituito il giustizialismo e che è privo di nuove e profonde ragioni ideali, politiche e programmatiche». In questa intervista a Ideazione il leader del Polo analizza le ragioni della fine dell’impero sovietico (una sorta di «cedimento strutturale») e riconosce i meriti indiscussi di due protagonisti assoluti della storia contemporanea, Giovanni Paolo II e Ronald Reagan, che seppero dare “scacco matto” al sistema comunista, mentre la televisione mostrava ai popoli dell’Est una diversa, e possibile, qualità della vita che li spinse a lottare per la libertà. Nelle parole di Berlusconi c’è però la consapevolezza di un lungo cammino ancora da compiere. Forse – profetizza – non sarà sufficiente «un’altra generazione per ricostruire quel che decenni di dittature comuniste hanno provocato». Eppure, in Italia come nel resto d’Europa, il secolo si chiude nel segno di una nuova speranza e «l’inizio del nuovo millennio può coincidere con la scomparsa delle tante illusioni che hanno segnato un pauroso regresso dello spirito umano».
I fatti del
1989, con la pacifica rivoluzione che liberò i popoli dell’Est dal
comunismo, restano un evento senza pari nella storia europea. Da allora,
abbiamo avuto quote elevatissime di libertà, ma anche disparità economiche
profonde, disuguaglianze sociali tuttora incolmabili, forme di nazionalismo
che hanno prodotto catastrofi come la tragedia dei Balcani. Doveva nascere
un’epoca di sicurezza e di libertà e ci siamo ritrovati nel pieno della
guerra del Kosovo. Quale bilancio può essere stilato di questo ultimo
decennio del secolo?
Il comunismo nei paesi dell’Est è crollato in seguito ad una sorta di
“cedimento strutturale” di quelle società e di quegli Stati. Si è trattato
di un collasso economico, politico, morale e culturale. Da una crisi così
profonda quei paesi sono usciti in condizioni disastrose, tranne qualche
rara eccezione. Il comunismo ha lasciato dietro di sé società disastrate,
Stati decomposti e degenerati, per cui oggi in Russia sono molto forti il
partito nazionalista e quello comunista mentre Eltsin e la sua classe
politica che sono in superficie “liberali e liberisti” hanno finora “retto”
a stento il durissimo scontro politico in corso. Di conseguenza la
situazione russa è pericolosamente appesa ad un filo: se non ci fosse stata
finora la “protezione americana” da tempo in Russia la situazione sarebbe
dominata dallo scontro-incontro fra nazionalisti e comunisti. Quando il
comunismo è finito, in molte di quelle società, in primo luogo nei Balcani,
sono riemerse le storie, i conflitti, gli odi di cento anni fa. Di
conseguenza gli anni dal 1989 al 1999 sono stati tutt’altro che facili: la
fine del comunismo ha prodotto guasti, tensioni, massacri, sconquassi
economici. Altre contraddizioni si sono manifestate sul terreno
dell’economia internazionale. L’economia americana è cresciuta avendo
realizzato un circolo virtuoso (bassa pressione fiscale, flessibilità,
investimenti nell’alta tecnologia, occupazione). Finora l’Europa arranca, ma
se si libera dello statalismo e dei vincoli delle sinistre postcomunista e
paleosocialdemocratica potrà riprendere la via della crescita: le elezioni
europee hanno dato un segnale molto significativo. In sostanza gli anni
Ottanta – sui quali non diamo affatto il giudizio negativo espresso dai
nostalgici di Breznev e Pol Pot – sono stati molto contraddittori. Essi sono
stati caratterizzati dal grande sviluppo degli Usa e dell’Inghilterra sotto
l’impulso di Reagan e della Thatcher, dalla crisi dei paesi usciti dal
comunismo e da un altro tipo di tensione avvenuto nell’economia
internazionale. Infatti la globalizzazione dell’economia certamente
costituisce un potente fattore di modernizzazione. Essa, però, richiede
anche la regolamentazione dei mercati e un ruolo di stabilità svolto dal
Fmi, dalla Banca mondiale e dalla Bce. L’esperienza di questi anni ci dice
che nell’economia globale la propagazione delle crisi è molto veloce e può
coinvolgere anche paesi non direttamente segnati da difficoltà economiche.
Di conseguenza è indispensabile che per un verso i mercati siano liberi e
flessibili, non inceppati e ingessati dai lacci e lacciuoli, ma che d’altra
parte i governi del G7 sviluppino politiche economiche coordinate e che le
autorità monetarie e creditizie internazionali svolgano un ruolo
stabilizzante.
Gli storici
concordano nell’indicare due protagonisti assoluti della vittoriosa sfida al
comunismo: Giovanni Paolo II e Ronald Reagan. Ma tutti sono anche d’accordo
nel considerare la televisione uno strumento decisivo nell’abbattimento del
Muro: nessuno potè impedire che i popoli europei comunicassero comunque tra
loro e che nei paesi dell’Est soffiasse impetuoso il vento della libertà.
Quel vento entrò nelle case attraverso la tv, sintonizzata sui canali
occidentali. E l’impero crollò. Le chiedo una riflessione sui due
personaggi, ma anche sulla televisione che – in quegli anni – svolse davvero
un ruolo rivoluzionario.
Non bisogna mai dimenticare i precedenti storici. Sul finire degli anni
Settanta il gruppo dirigente sovietico aveva elaborato un disegno volto a
conquistare una piena egemonia internazionale. Infatti l’installazione dei
missili SS-20 aveva come obiettivo quello di arrivare alla sostanziale
“finlandizzazione dell’Europa”. Papa Giovanni Paolo II e Ronald Reagan,
ciascuno a suo modo, prima bloccarono quel tentativo e poi diedero scacco
matto al sistema comunista. Il Papa colpì al cuore il comunismo reale
combinando insieme le ragioni della libertà e quelle della religione. A sua
volta Reagan definì una politica economica che liberò le forze
imprenditoriali dalle ingessature dello statalismo. Così l’economia russa fu
messa in ginocchio sia dalla ripresa impetuosa dello sviluppo capitalistico
sia dal fatto che sul terreno degli armamenti Reagan “rilanciò la posta”,
prima con l’installazione dei Pershing poi con il progetto delle “guerre
stellari”. Contro l’installazione dei Pershing si scatenò il movimentismo
pacifista. Adesso dal libro di Bukovskii, Gli archivi segreti di Mosca,
apprendiamo che il pacifismo era finanziato dal Pcus e dal Kgb. In tutti
quegli anni l’influenza della televisione è stata molto rilevante. La
televisione fa vedere in diretta molto di ciò che avviene realmente nel
mondo: la forza di imitazione e di propagazione di tutto ciò può essere
straordinaria. La tv ha consentito ai popoli che vivevano nell’Est di fare
paragoni e confronti per ciò che riguardava la qualità della vita. Di
conseguenza la televisione nel medio periodo ha contribuito a provocare il
crollo del comunismo.
Ancora sulla
televisione: proprio quell’immagine affascinante e prepotente che fu
proiettata dall’Occidente, non finì anche per alimentare l’illusione di un
benessere a portata di mano, di una felicità dietro l’angolo? In questo
senso, alla tv può essere in qualche modo attribuita una parte di
responsabilità per non aver mantenuto le sue promesse, per quel sogno di
benessere e di libertà poi realizzato solo in parte e al prezzo di grandi
sacrifici?
È in parte vero. Per chi non ha nulla è facile credere che si possa avere
tutto. La pubblicità esalta, magnifica il prodotto, ma chi acquista è sempre
un uomo. Qualcuno ha pensato che una volta ottenuta la libertà bastava
questo solo fatto per avere quelle luci, quei colori che si vedevano oltre
il Muro grigio dei regimi totalitari. Il lavoro da fare è ancora molto. Ci
vorrà forse un’altra generazione per ricostruire quel che decenni di
dittature comuniste hanno provocato. In questo senso determinante sarà il
ruolo dell’Europa. Del resto l’Europa ha bisogno di tutti i suoi cittadini
per essere davvero patria comune. Occorre contrastare con ogni mezzo il
nazionalismo integralista alla Milosevic, per intenderci. Il cocktail di ex
comunismo e nazionalismo può avere effetti terribili.
Quando lei
discese in campo, nel 1994, per poi vincere le elezioni del 27 marzo, lanciò
un chiaro ed esplicito messaggio anticomunista. Molti italiani capirono e le
diedero fiducia. Perché scelse proprio quel tipo di propaganda, con toni da
aprile 1948? In fondo, il comunismo in Italia non aveva mai governato, il
Pci non esisteva più, erano nati nuovi partiti, il Pds era entrato
nell’Internazionale socialista.
Per capire la nostra campagna elettorale del ’94 bisogna ricordare ciò che è
successo in Italia negli anni Settanta e poi dal ’92 al ’94. L’Italia è
stato un paese di confine fra le democrazie occidentali e i paesi dell’Est.
In Italia c’è stato il più forte partito comunista dell’Occidente. Dagli
anni Settanta in poi una parte del gruppo dirigente democristiano
(Andreotti, Moro, De Mita) ha parzialmente “aperto” al Pci per
ridimensionare le ambizioni del Partito socialista italiano, allora guidato
da Craxi. Da ciò derivò il consociativismo. Negli anni Settanta il Pci
rimase ancora escluso dal governo ma venne associato alla gestione del
potere specie per quel che riguardava la politica economica e sociale. Per
di più in quegli anni, mentre la Dc e il Psi concentravano la loro
attenzione sulla gestione delle banche e degli enti economici, il Pci si
impegnò a far occupare le principali procure da magistrati politicizzati ad
esso vicini. Quando nel 1989 avvenne il crollo del comunismo, il gruppo
dirigente del Pci decise che l’unica strada era quella di sostituirsi al
Psi. Il Pds realizzò questa operazione attraverso l’uso politico della
giustizia che tolse di mezzo tutti i tradizionali partiti di governo. In
sostanza nel 1994 sono sceso in campo e ho contribuito a creare Forza Italia
quando “la gioiosa macchina da guerra” messa in piedi da Occhetto stava per
prendere il potere. In quella situazione l’unico modo per contrapporsi era
quello di dire la verità, e cioè che ci si trovava di fronte alla presa del
potere da parte del partito postcomunista. Difficilmente avremmo avuto quel
consenso popolare se non avessimo detto la verità. Infatti la campagna
“anticomunista” del 1994 ebbe un grande successo perché era ispirata da una
profonda verità: la gente votò per il Polo delle libertà proprio per evitare
che prendesse il potere il partito postcomunista che dal leninismo era
approdato al giustizialismo.
Il filosofo
cattolico Augusto del Noce considerava un vero suicidio per la cultura
cattolica e liberale l’aver regalato alla sinistra marxista (e alla sinistra
di formazione azionista) una incontrastata egemonia in campo culturale. Oggi
la situazione in Italia sembra modificata solo in parte. Non crede che
dovrebbe moltiplicarsi l’impegno per immettere dosi più consistenti di
cultura liberaldemocratica nelle case editrici, nei giornali, nelle
televisioni?
L’egemonia della sinistra nella cultura è fra le responsabilità più gravi e
uno dei prodotti velenosi di quello che si definisce genericamente il
consociativismo. Si è riconosciuto al Pci una sorta di privativa nel campo
della cultura, un prezzo pagato non solo dalla classe politica ma dalla
classe dirigente in senso lato, dalla cultura ma anche da un establishment
di borghesia finanziaria e industriale che ha rinunciato ad avere, in questo
campo, una voce e una presenza autonome. In generale la borghesia italiana
non ha avuto la capacità e il coraggio di proporsi, in questo campo, come
una classe dirigente a tutti gli effetti, capace di esercitare un ruolo di
direzione complessivo della società. La storia è lunga, passa attraverso il
cedimento alla sinistra nel campo dell’informazione, dell’editoria, più in
generale nel campo degli orientamenti ideali e della stessa organizzazione
della cultura e delle sue istituzioni. Non si è tenuto alcun conto della
lezione gramsciana, che nella sostituzione della definizione di “egemonia
della classe operaia” a quella di “dittatura del proletariato” aveva
indicato nella conquista delle “casematte” della cultura il terreno decisivo
per la conquista del potere. Il crollo dei regimi comunisti, e della
prospettiva comunista, offre alle forze liberali ampie possibilità di
intervento. Ed è vero che compito delle forze democratiche, cattoliche, e
liberali, è quello di trovare e di affinare gli strumenti capaci di
rispondere a una crisi culturale, di orientamenti, di ricerca che è propria
del nostro paese, il quale ha scontato l’egemonia marxista anche con la
separazione dalle correnti ideali più avanzate e moderne, più capaci di
rispondere ai mutamenti delle società più evolute fra le quali, per questa
ragione, stenta a inserirsi il nostro paese.
Sembra che il
crollo del comunismo abbia anche cancellato una illusione che molte
generazioni avevano coltivato nel corso del Novecento: l’illusione che la
Politica – con la p maiuscola -– potesse un giorno regalare all’uomo la
felicità e costruire un mondo migliore, grazie alla forza delle idee e al
contributo dei singoli. La fine delle ideologie, non solo del comunismo,
sembra essersi portata via con sé questa illusione. Ma allora, le chiedo,
che spazio resta alla politica in questa nostra stagione del disincanto? Può
e deve ancora, la politica, incarnare speranze, suscitare passioni?
Farei una distinzione. La politica come solutrice di tutti i problemi
dell’uomo, la politica come strumento per costruire la “società ideale”,
l’illusione coltivata dalle utopie del passato, ha perduto il suo fascino,
la sua capacità di conquistare l’animo del singolo e quello delle folle.
Lenin definì il marxismo come la chiave per forzare la Storia, per il
“passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza”. Oggi sono crollate le
utopie, è crollata la pretesa che queste possano tramutarsi in scienza. Di
scientifico c’è stato solo il dominio totalitario sugli uomini, sulla loro
vita, sulle loro coscienze. In questo senso, nessuno rimpiangerà, credo, la
fine delle illusioni che ha accompagnato il tramonto delle ideologie
totalitarie: il fascismo, il comunismo, quelle che sono state chiamate “le
religioni laiche” del nostro secolo. Questo non significa la fine della
politica, né dell’interesse che gli uomini prestano alla soluzione da dare
ai problemi delle nostre società, che evolvono con una rapidità e una
radicalità tale da richiedere risposte non facili. E c’è un elemento di
fascino anche in questa ricerca, laica, lontana da ogni genere di
integralismi, che è propria del nostro tempo e delle società libere. Il
disincanto riguarda la possibilità dell’uomo di trovare scorciatoie, di
saltare le fasi che lo sviluppo ci propone di continuo per inseguire
soluzioni che nascono nella mente di chi, senza confrontarsi con la realtà,
propone soluzioni miracolistiche. Soprattutto, bisogna diffidare di coloro
che si propongono come solutori dei problemi complessi del nostro mondo.
Dostojevski, ne I Demoni ha anticipato tanta parte degli orrori di questo
secolo, e c’è voluto un secolo per liberarcene. L’inizio del nuovo
millennio, può coincidere con la scomparsa delle tante illusioni che hanno
segnato un pauroso regresso dello spirito umano.
In vista delle
prossime elezioni politiche generali, un programma politico per le libertà –
innovazione, modernizzazione, riforme – potrà ancora definirsi
anticomunista?
Qualsiasi programma politico abbia in sé innovazione, modernizzazione e
riforme è per sua stessa natura anticomunista. Forza Italia e il Polo delle
libertà sono nate proprio per promuovere questi ideali. Per questo non
possiamo non dirci anticomunisti.
Nell’estate
del 1996, durante un dibattito pubblico ad una festa dell’Unità, chiesero a
D’Alema, allora segretario del Pds, quanto fosse democristiano il presidente
del Consiglio dell’epoca, Romano Prodi. D’Alema sorrise, si accarezzò i
baffi e rispose: «Secondo me Prodi è democristiano al trenta per cento».
Secondo lei quanto è comunista l’attuale presidente del Consiglio Massimo
D’Alema?
I Ds di
D’Alema e di Veltroni sono l’unico partito dell’Europa occidentale
appartenente all’Internazionale socialista le cui origini sono comuniste e
non socialdemocratiche. Il paradosso italiano, è costituito dal fatto che i
Ds sono al governo in una posizione dominante eppure mai la sinistra
italiana è stata così debole. Una delle ragioni di questa debolezza è
proprio costituita dal fatto che è venuto meno l’elettorato socialista che
in larga parte ha votato e vota per Forza Italia anche perché ha ben chiaro
che il Pds a suo tempo ha attivamente contribuito alla distruzione del Psi.
Né in tutti questi anni il Pci-Pds-Ds ha realizzato un’autentica revisione
ideologica e programmatica. Esso “naviga a vista” senza bussola e senza
carte nautiche. La mia impressione è che D’Alema non è più comunista senza
essere diventato socialdemocratico. Una larga parte dei Ds, poi, sta su
posizioni più arretrate di quella dell’attuale presidente del Consiglio. I
Ds stanno in una sorta di terra di nessuno con tutte le conseguenze negative
di una posizione di questo tipo. Un ceto politico, quello dei Ds, legato al
potere, che al leninismo ha sostituito il giustizialismo, e che è privo di
nuove e profonde ragioni ideali, politiche e programmatiche. Dopo il 1989 il
Pds per un verso ha praticato un uso politico della giustizia per
distruggere le tradizionali forze politiche di governo, per altro verso ha
operato una sorta di mimetizzazione spregiudicata: un giorno i Ds sono
liberisti e un altro giorno statalisti, una volta sono garantisti, molto
spesso sono giustizialisti, talora si dichiarano socialdemocratici altre
volte ricercano una terza via. È un’esercitazione arrischiata dare le
percentuali della composizione ideologica della cultura diessina.
Francamente è difficile prevedere cosa verrà fuori da un cocktail così
complicato.
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