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da Ideazione settembre-ottobre 1998
Ecco perché l’Italia non è un Paese normale
intervista a SILVIO BERLUSCONI di DOMENICO MENNITTI

[21 apr 08] Il 1998 si sta caratterizzando come un anno importante, forse decisivo, per la vicenda politica di Silvio Berlusconi. Ad aprile si è svolto a Milano il primo congresso di Forza Italia, che ha rivelato a tutti una realtà organizzativa e politica molto più compatta e presente di quanto si potesse immaginare. A Milano è maturata anche l’iniziativa che ha sconvolto il percorso del rinnovamento istituzionale con la decisione di far saltare il tavolo delle riforme. Così è finito senza esiti pure il cammino della terza Commissione Bicamerale istituita nella storia del Parlamento italiano.

È importante il 1998 anche perché stanno giungendo alla prima fase di giudizio alcuni dei processi che la magistratura milanese ha posto in essere contro Berlusconi. L’opinione diffusa era che le previste sentenze di condanna avrebbero spinto fuori dalla scena il leader di Forza Italia, il quale, invece, ha reagito con forza, registrando a suo favore larghe manifestazioni di consenso. Constatiamo una rottura degli equilibri costituzionali, che non potrà restare priva di effetti sul piano politico. Ora, con la ripresa dei lavori parlamentari, Berlusconi dovrà affrontare una serie di problemi che segneranno la parte finale dell’anno. È chiamato a gravi impegni su più fronti, circostanza che ne esalta le doti di combattente e lo colloca al centro di tutti gli snodi politici ed istituzionali. Questa intervista non è un bilancio e neppure l’elenco di bellicose intenzioni; è una riflessione in corso di eventi che rendono quanto mai incerta, difficile, per certi aspetti inquietante, la transizione italiana.

La ripresa politica di settembre è l’occasione propizia per tracciare un bilancio dei molti eventi maturati nei mesi scorsi, ma anche per capire come Lei intende impostare l’azione strategica del Polo. Si apre l’ultima e decisiva stagione dell’anno ed è importante poter riflettere fuori dal clima emotivo delle emergenze. Ripercorriamo le tappe più significative, partendo dal fallimento della Bicamerale. Considerando che la proposta dell’Assemblea costituente incontra ostacoli difficilmente superabili e che non ci sono possibilità concrete di realizzare riforme profonde attraverso i meccanismi previsti dalla Costituzione vigente, pensa sia possibile un’altra iniziativa per poter sbloccare la situazione in questa legislatura?
A determinare il fallimento della Bicamerale è stata la prevalenza, nello schieramento dell’Ulivo, delle posizioni più conservatrici, rappresentate dai partiti o dal personale politico sopravvissuti alle vicende degli anni passati. Questi non hanno accettato che si mettesse in discussione il potere acquisito e si sono opposti a ogni riforma che allentasse la morsa delle oligarchie di partito sulle istituzioni a vantaggio dei cittadini. Non è pensabile che questa volontà, alla quale ha finito per arrendersi lo stesso D’Alema, possa cambiare e dunque non vedo, almeno da parte nostra, quale iniziativa assumere. Il presidente della Camera Violante ha detto che, se ci fosse una maggioranza disponibile, si potrebbe eleggere un’Assemblea costituente. Ma, per le ragioni che ho appena evidenziato, non vedo come questa maggioranza si possa costituire. Resta fermo, naturalmente, che il Polo sarebbe disponibilissimo.

Le autocitazioni sono sempre odiose, ma è opportuno ricordare che proprio Ideazione ospitò un mio intervento, nel corso del quale sottolineai il problema “politico” da risolvere per poter porre mano alle riforme. La maggioranza di governo era contraria a realizzarle; l’alternativa era perciò superare quella coalizione e costruirne un’altra finalizzata alla riscrittura delle regole politiche. Poi, una volta consegnata al Paese la nuova Carta costituzionale, ognuno avrebbe ripreso la propria strada e riassunto il proprio ruolo in un consolidato quadro di democrazia maggioritaria. Su quella proposta si sviluppò il lavoro dei dietrologi e non mancarono volgari tentativi di strumentalizzazione, evocando il fantasma dell’inciucio. Ma l’inciucio vero e paralizzante si rivelò quello dei diessini, che pensavano di poter partecipare furbescamente a tutte le maggioranze: quella della Bicamerale che invocava le riforme e quella del governo che le negava. Si è salvato il governo claudicante di Prodi e si sono affossate le riforme.

C’è poi il tema della giustizia. Si tenta di farne un problema personale, quasi fosse la mia persona l’ostacolo ad un accordo. È vero il contrario. È vero che se passa il principio che a scegliere chi governa e, addirittura, chi può fare il capo dell’opposizione è un pool di magistrati che si costituisce a sinedrio in grado di selezionare, o meglio di pre-selezionare, la classe dirigente, costruendo accuse e processi mostruosi, se passa questo principio, l’Italia uscirà dal novero dei Paesi democratici.

Quando il Polo pone in primo piano il problema della giustizia, dunque, pone il problema del fondamento stesso delle garanzie democratiche e della possibilità di un libero esercizio della democrazia. Senza il quale non c’è Costituzione che tenga. Si è ricordato più volte che la Costituzione sovietica del 1936 fu dichiarata perfetta dai giuristi. Ed erano gli anni delle purghe staliniane.

Per come si sono messe le cose, sembra scontato che il prossimo appuntamento politico di maggior rilievo sarà l’elezione del capo dello Stato nella primavera del 1999. Sarà la Sua prima volta da “grande elettore”, ma vivrà l’esperienza subito da protagonista, investito da grandi responsabilità, perché sarà determinante per la scelta del nuovo “primo cittadino”. Non Le chiediamo di fare un nome, ma di consentirci di tracciare un identikit.

L’aspetto più amaro del fallimento della Bicamerale è che al popolo sarà impedito ancora una volta di eleggere direttamente il capo dello Stato, il rappresentante della nazione. Il settennato ormai trascorso doveva segnare la transizione alla famosa Seconda Repubblica. Il fatto che siamo ripiombati in pieno nel clima di manovre e di tramestii dimostra che non si è fatto niente per uscire dalla transizione in modo positivo, guardando al futuro. Ed è questa, al di là dei singoli fatti pur gravi e al di là di ogni polemica personale, la critica politica che mi sento di muovere al capo dello Stato.

L’augurio non può che essere quello di avere al Quirinale un uomo convinto della necessità di portare il Paese fuori da un periodo di incertezze che, durando troppo a lungo, finisce per intorbidare il clima politico avvelenando la vita pubblica.

Si sente di escludere, dopo le antiche contrapposizioni e le recenti polemiche, l’ipotesi di una proroga per Scalfaro, qualora nel frattempo il dialogo sulle riforme dovesse riaprirsi?
Dopo quel che ho detto, mi sembra difficile che si possa pensare alla ripresa di un dialogo sulle riforme istituzionali. O, almeno, di un dialogo che porti a qualcosa di positivo. Abbiamo tentato con la Bicamerale e, dopo il suo fallimento, non certo per colpe nostre ma delle sinistre, ci siamo dichiarati disponibili per l’elezione di un’Assemblea costituente. Infatti, il ricorso all’articolo 138 può dar luogo solo a singoli ritocchi. E impedisce la formazione di una volontà comune su una riforma organica della quale l’Italia ha bisogno. Era il compito della Bicamerale, ove ci fosse stata la volontà di cambiare qualcosa. Questa non c’è stata e ancora non c’è, perciò ogni ipotesi collegata all’eventualità che si riapra il dialogo sulle riforme mi sembra non valutabile, perché al momento è priva di fondamento.

Veniamo ad un tema che è diventato centrale nello scontro politico. La sequenza delle iniziative giudiziarie contro di Lei non sembra rallentare e c’è chi sostiene che anzi subisce accelerazioni ogni volta che risultati politici importanti appaiono a portata di mano. C’è, insomma, l’interferenza di una parte della magistratura perché non si compia il processo di riscrittura delle regole della politica, un gioco che è apparso pesante nella fase conclusiva dei lavori della Bicamerale, contribuendo molto a farli fallire. Come pensa sia possibile sottrarre la politica a tale condizionamento e ristabilire il corretto equilibrio fra i poteri dello Stato?Quello di ristabilire il corretto equilibrio fra i poteri dello Stato è il tema centrale della politica italiana, e ne ho appena spiegato le ragioni. Non è possibile affrontarlo se non ci sono alcune condizioni, che non spetta solo a noi assicurare. La prima condizione mi pare si stia già verificando: è la coscienza degli italiani che non può esserci una vita democratica normale, neanche una normale vita delle aziende e degli apparati pubblici, se la giustizia non rientra nei suoi limiti fisiologici, se al protagonismo di certe procure non si pone un freno, un limite.Va da sé che il tema più scottante è il ruolo abnorme - e incostituzionale - che queste procure hanno acquisito nella vita politica e che condiziona la stessa facoltà del Parlamento di legiferare, che ha condizionato la vita e l’esito della Bicamerale incaricata di riscrivere la Costituzione.

La seconda condizione è che il mondo politico, nel suo complesso, prenda coscienza del fatto che non è possibile rinviare, obbedendo a pressioni che hanno un forte sapore di ricatto, un problema così decisivo. Qui una parola chiara va rivolta alla sinistra. Una parte dei Democratici di sinistra - della quale D’Alema è, nel migliore dei casi, rimasto prigioniero - dopo le promettenti dichiarazioni di tanti suoi esponenti ha finito, di buona o cattiva voglia, per allinearsi con le procure. Non voglio qui entrare nel merito del “perché” lo abbia fatto. Se per timore di ciò che potrebbe venir fuori dall’estensione o dalla ripresa di certe indagini oppure perché alla fine ha prevalso la convinzione, diffusa in una parte del partito e dei militanti, che la legittimazione del potere acquisito (lo ebbe a spiegare chiaramente il giudice Caselli) è legata all’opera della magistratura e, dunque, delegittimando l’una si delegittima l’altro. Qui commette però un errore grave, direi storico. Perché su questa strada lascerà sospesa su di sé e sull’origine del suo potere di governo l’illegittimità che si è prodotta appunto quando si costituì il presente Stato istituzionale, un’ombra difficile da cancellare. Ecco perché l’Italia non riesce a uscire da una fase di transizione alla quale si può porre fine solo restituendo alla politica tutta la sua legittimità. Quella che fu dichiarata una maledizione dei comunisti, di non essere riusciti ad andare al potere in nessun Paese per virtù di un voto popolare libero e schietto, rischia di perseguitare anche i comunisti italiani. Inchieste giudiziarie e ribaltoni costituiscono un bagaglio storico del quale è difficile liberarsi. Questa era l’intuizione di D’Alema, allorché si costituì la Bicamerale, e averne perso il senso è la causa primaria del fallimento.

La terza condizione chiama in causa i Paesi amici e alleati, la comunità dei Paesi democratici. Quel che succede in Italia comincia a preoccupare la cultura giuridica e politica anche fuori dei nostri confini. La posizione di organi di informazione come il Wall Street Journal, quella di autorevoli osservatori, la pubblicazione di libri che si esprimono con preoccupazione sul “caso italiano”, le condanne sempre più frequenti del nostro Paese da parte dei tribunali internazionali e della Corte di Strasburgo, il prossimo varo di una commissione di giuristi inviati in Italia dalla Lega internazionale per i Diritti dell’uomo, aderente all’Onu: sono tutti segnali che indicano come stia gradatamente cambiando nel mondo il giudizio sulla situazione italiana.

Del resto, il timore che il “caso italiano”, cioè la crescente occupazione di spazi politici da parte della giurisdizione, non sia destinato a limitarsi al nostro Paese, è ormai diffuso in una parte considerevole della cultura, in Europa e nel mondo. La coincidenza in Italia fra l’ascesa al potere dei comunisti, esempio unico dell’Occidente, e il profilarsi di un regime largamente condizionato dal potere giudiziario non è accadimento che tranquillizzi l’opinione democratica.

Non molti anni fa, ministri, sottosegretari e leaders di partito gettavano la spugna al primo avviso di garanzia. Lei ora, pur con il carico di sentenze di condanna, tiene il campo con determinazione, riceve solidarietà diffuse, si sente sorretto da un largo consenso della pubblica opinione. Che cosa è cambiato? È Lei un personaggio particolare, che trae vigore dall’essere tuttora un impolitico o sono i giudici che hanno perso credibilità nel giudizio degli italiani? In entrambi i casi siamo in presenza della rottura degli equilibri costituzionali: quali immagina possano essere le conseguenze?
La ragione principale del fenomeno al quale Lei accenna è che gli italiani hanno capito quale è la posta in gioco. In gioco, lo ripeto, non c’è la mia persona, né le mie aziende. E del resto, finché mi sono tenuto lontano dalla politica, nel periodo di maggiore attività di Tangentopoli, durante tutti gli anni 1992 e 1993, né io né le aziende da me fondate e dirette siamo stati sfiorati dalle inchieste. Ci deve essere, dunque, qualcosa d’altro, come tutti hanno capito fin troppo bene.

In gioco c’è infatti la possibilità stessa che il nostro Paese viva in un normale regime democratico, nel quale è il popolo a scegliere, in libertà, chi deve governare e chi deve restare all’opposizione. I fatti degli ultimi anni hanno chiarito quali siano i pericoli che corre l’Italia. Qualche anno fa le inchieste giudiziarie furono accompagnate dal favore popolare perché dirette - almeno questa fu l’impressione - contro tutto il sistema politico che appariva vecchio, immobile e, in definitiva, marcio. All’inizio, i magistrati colpirono in tutte le direzioni, e gli italiani ebbero l’impressione di un’opera volta a fare pulizia, a mandare a casa una classe dirigente che aveva fatto il suo tempo. Il modo nel quale tutto questo avveniva non era dei più ortodossi, perché le regole non venivano rispettate, e con esse il diritto dei cittadini-imputati. Per questo si parlò di una “rivoluzione dei giudici”, cioè di un evento eccezionale, rivoluzionario appunto, attorno al quale si raccolse un vasto consenso popolare, tanto avvertito era il bisogno di un cambiamento. E quanti furono colpiti dalle inchieste, molti colpevoli, molti innocenti, vennero spazzati via, come Lei ricorda, al primo avviso di garanzia.

Solo più tardi ci si accorse che, in realtà, la macchina giudiziaria colpiva in modo selettivo e che la geografia della corruzione veniva a coincidere perfettamente, nei suoi effetti, con una geografia politica che risparmiava i partiti post-comunisti, quella parte della Dc che da sempre era stata alleata del Pci e tutti coloro che, in un modo o nell’altro, si ponevano sotto la protezione dei nuovi padroni. Era il “compromesso storico” che veniva attuato, in forme del tutto impreviste, vent’anni dopo la predicazione di Enrico Berlinguer e di Franco Rodano. All’opposizione restava un partito - il Msi non ancora An - che, oltre ad essere estraneo ai fatti perché escluso dal sistema consociativo e dal cosiddetto “arco costituzionale”, poteva rivestire per le sue origini storiche i panni di un’opposizione senza speranza, e restava un partito regionale come la Lega, che aveva avuto il merito di scuotere l’albero, ma che certo non aveva la possibilità di raccoglierne i frutti, non essendo in grado di assicurare la direzione politica al Paese intero.

La nascita di Forza Italia ha modificato il panorama politico: gli elettori moderati, prima dispersi e rassegnati, hanno trovato la forza politica che li rappresentava, sulla quale contare e attorno alla quale raccogliersi. Contemporaneamente, contro di me e contro le aziende da me fondate, si scatenava la persecuzione giudiziaria più accanita. Poche date: il 6 gennaio presentai Forza Italia a Roma, l’8 gennaio la presentai a Milano, il 10 gennaio fu arrestato mio fratello e decine di perquisizioni della Finanza si abbatterono sulle mie aziende. Nessuno poteva fingere di non capire, anche perché da allora la persecuzione giudiziaria non si è arrestata più e, dopo la nostra affermazione elettorale del 27 marzo 1994, ha contribuito in modo sostanziale a quel sovvertimento della volontà popolare che è stato il “ribaltone”.

Oggi è del tutto chiaro agli italiani, o almeno ai moderati che non si rassegnano all’idea di un regime della sinistra comunista senza alternative possibili, che la mia eliminazione determinerebbe una disgregazione di Forza Italia, del Polo delle libertà e, quindi, di tutta l’opposizione e costituirebbe, per qualsiasi oppositore, un messaggio chiarissimo: nessuno, senza grave pericolo, può contrastare l’attuale potere.

La vera anomalia, anzi, la vera patologia italiana è quella dei magistrati militanti organici alla sinistra che, in adempimento a un preciso e ben collaudato disegno politico, inquisiscono, processano e condannano i nemici “politici”. La delegittimazione e l’eliminazione degli avversari politici per via giudiziaria sono, d’altronde, sempre state nelle corde e nella storia dei partiti comunisti. Solo che questa volta hanno fatto male i calcoli: la gente ha capito, sta con me, assicura un crescente appoggio a Forza Italia e al Polo, ed io non mi lascio intimorire, resto al mio posto più determinato che mai affinché l’Italia possa vivere in un regime di libertà piena.

Alla ripresa dei lavori parlamentari tornerà in discussione la proposta di istituire la Commissione d’inchiesta su Tangentopoli. Essendo ormai chiaro che la preoccupazione della sinistra ex democristiana ed ex comunista non è che si rifacciano i processi già celebrati dai giudici, ma piuttosto che si facciano anche quelli che i giudici non hanno celebrato, quali aspettative Lei affida a questa iniziativa parlamentare, e perciò aperta a tutti i giochi dei partiti e delle coalizioni, ove dovesse concretamente realizzarsi?
Esiste un impegno, preso davanti al Parlamento e al Paese, di votare per la costituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta. Dinanzi a questo impegno ognuno assumerà le proprie responsabilità. E sarà chiaro chi ha qualcosa da temere dinanzi alla prospettiva che si faccia chiarezza. Non si tratta di fare né di rifare processi, ma di esplorare quale fu il fenomeno della corruzione, quale fu la vera estensione, quali ostacoli trovò l’opera di pulizia che fu, come ho spiegato, del tutto selettiva. Voglio sperare che la sinistra non si opponga a quest’opera di ricerca della verità. Quel che doveva succedere in termini politici è successo, ed è a questo punto interesse di tutti che si dissipi l’aria pesante che avvolge la vita politica italiana, che si esca da quel clima di ricatti nel quale un famoso pm vedeva avvolta l’intera vita pubblica.

La stessa magistratura, che in grandissima parte ha continuato a fare il suo dovere in silenzio e al servizio dei cittadini, non ha nulla da temere se si farà chiarezza completa su un periodo della nostra storia. È un’esigenza urgente, perché di vittime, in questa sorta di stato di guerra, ce ne sono state già abbastanza, e non c’è magistrato che non lo sappia. Vorrei ricordare le parole che Filippo Mancuso pronunciò al Senato, quando l’allora ministro di Grazia e giustizia, a seguito di un orrendo processo politico, venne cacciato dal governo: «Non aspettate che il pericolo bussi alla vostra porta, per accorgervi di quello che sta succedendo...».

A settembre verranno in evidenza anche i problemi dell’economia e del lavoro. Dopo i grandi entusiasmi determinati dall’ingresso nel sistema della moneta unica europea, è emersa la verità: siamo giunti alla meta stremati. Se l’ingresso in Europa era irrinunciabile per ragioni politiche, resta ora l’esigenza di starci con dignità. Obiettivo tutt’altro che facile da raggiungere, considerati gli allarmi sociali soprattutto del Mezzogiorno. Quali saranno gli atteggiamenti del Polo in sede di esame della finanziaria? Oltre alle critiche, c’è anche una proposta concreta per favorire lo sviluppo?
L’euforia per l’ingresso dell’Italia nell’euro non è durata molto, la grancassa suonata dal governo è stata fragorosa ma di breve durata. È apparso chiaro che la creazione della moneta unica e la partecipazione dell’Italia, peraltro del tutto scontata per ragioni politiche, sono avvenute in modo tale da rendere difficile il restarci in condizioni accettabili. La mancata riforma della spesa pubblica, l’aumento del peso fiscale e la stagnazione provocata dal rinvio di tutte le spese produttive hanno determinato una stasi economica, dimostrata, peraltro, dal rallentamento della crescita, dall’aumento della disoccupazione e dall’allargamento dell’area delle povertà. In queste condizioni, i conti pubblici sono tornati a destare la preoccupazione della Banca d’Italia e il debito complessivo, che ci siamo impegnati a ridurre, è tornato a salire in termini assoluti.

Il Polo delle libertà, come ha fatto nel passato, e con il maggior impegno che gli proviene dalla sua forza crescente, tornerà in sede di esame della legge finanziaria a battersi perché si creino le condizioni possibili e indispensabili per un reale sviluppo: prima di tutto, una riduzione della spesa, specie di quella corrente, cominciando con una reale riforma di un welfare in crisi perché chiamato a difendere solo i grandi interessi rappresentati dalle confederazioni sindacali, che non possono rappresentare i giovani, i disoccupati, le forze del lavoro autonomo e creativo. Con la riduzione della spesa, va ridotto il peso fiscale, volano decisivo per ogni investimento che crei insieme ricchezza e posti di lavoro; va assicurato al lavoro, specie al Sud, una flessibilità senza la quale non si può pensare che un imprenditore voglia e possa assumere chicchessia. Non sono formule magiche. In quei Paesi, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e gli altri, nei quali in questi anni abbiamo avuto la maggiore crescita, la formula è stata semplice: liberare l’economia da quelli che Carli, già 25 anni fa, definiva da noi “lacci e lacciuoli”, creati dalle “arciconfraternite del potere”.

Il senatore Agnelli ha dichiarato che solo un governo di sinistra avrebbe potuto portarci in Europa, perché gode di un rapporto d’intesa, sarebbe meglio dire di complicità, con i sindacati. Vale ricordare che furono i sindacati a dare la spallata finale al Suo governo con la mobilitazione in piazza dei lavoratori. Non ritiene che questo sia un nodo che il centro-destra deve comunque affrontare, perché è impossibile che debba sostenere lo scontro sempre su due fronti, quello politico ed anche quello sindacale? Ha pensato ad una strategia di approccio a questo delicato problema?
Vorrei ricordare che, successivamente, il senatore Agnelli osservò, con una frase nella quale ho colto una punta di autoironia, che non ci restava che sperare in Cossutta. E vorrei anche osservare, di sfuggita, che l’atteggiamento di una parte, rilevante per potere e influenza, del mondo industriale e finanziario è alla base di una delle anomalie italiane. Come lo è la formazione di un blocco sociale che rappresenta interessi fra loro diversi e difformi e che contribuisce fra l’altro - per la natura dell’editoria italiana - a creare una uniformità culturale e nell’informazione che è la ragione prima del conformismo nel quale viviamo e del pericolo di regime che corriamo.

Grazie a questo intreccio di interessi fra una parte influente del mondo industriale e finanziario e una certa politica di tipo statalistico, l’organizzazione più rappresentativa del mondo imprenditoriale, la Confindustria, che avrebbe il compito di rappresentare milioni di imprenditori (i grandi, i medi e i piccoli), pur avvertendo i rischi della politica del governo, nei momenti decisivi appare paralizzata e bloccata. E questo priva la rappresentanza sociale in genere della capacità di esprimere tutta la geografia sociale del Paese.

Quanto ai sindacati dei lavoratori dipendenti, anche loro tendono a rappresentare di più i nuclei delle grandi aziende, i pensionati (o, meglio, certi pensionati: per esempio, quelli di anzianità) ed altre fasce privilegiate, rispetto ad altri lavoratori attivi, soprattutto giovani e delle aziende meno importanti. Su tutto, poi, grava un’ipoteca politica che condiziona il movimento sindacale nel suo complesso, ne fa il protagonista di un balletto grottesco con un governo amico, criticato a parole, sostenuto nei fatti, con quelle marce di lotta e di governo che minano la credibilità del sindacato, ridotto a copertura di un esecutivo che colpisce anche e soprattutto i ceti più deboli. Il risultato è la sudditanza di tutto il movimento sindacale alla confederazione più forte e più legata ai partiti post-comunisti, la Cgil di Cofferati. La speranza è nella storia del nostro Paese e del suo movimento sindacale. La Cisl e la Uil si costituirono per liberare il mondo del lavoro dall’ipoteca totalizzante della confederazione di obbedienza comunista. Credo che prima o poi un problema di questo genere torni a proporsi, e che certe inquietudini, soprattutto nella Cisl che ha una base solida fra i lavoratori, indichino un disagio che non potrà che crescere.

Intanto crescono, non a caso, organizzazioni come l’Ugl e, soprattutto, un sindacalismo autonomo, verso il quale si orientano quei lavoratori che non accettano l’idea di un sindacato ufficiale e para-statale, incompatibile con una reale e libera dialettica sociale. 

Sono mesi che il governo annunzia la costituzione di una nuova Agenzia per il Sud, ma non riesce a trovare una formula che davvero si discosti dal vecchio modello assistenziale. Paradossalmente, si sa dove attingere le risorse, ma manca la capacità di impiegarle. Ovunque, ma in particolare nelle città del Mezzogiorno, i disoccupati sono in rivolta ed il governo risponde con misure di ordine pubblico. Per Prodi, sospinto dai diktat di Bertinotti, il Sud è ancora problema di Stato, di incentivi clientelari, di lavori socialmente utili. Per Berlusconi, invece?
Il governo reprime a Napoli quei movimenti di disoccupati che avanzano richieste che l’esecutivo dichiara inaccettabili, cioè assunzioni alle quali non corrisponde la creazione di lavoro realmente produttivo. Il problema è che il governo fin qui si è mosso proprio in quella direzione, con i lavori socialmente utili e il resto, creando attese pericolose. Più in generale, la sinistra ha cavalcato fino a ieri movimenti che oggi criminalizza, scorgendo in essi addirittura “infiltrazioni eversive”! Il problema della disoccupazione nel Mezzogiorno si affronta - non dico neppure si risolve - solo rendendo convenienti e remunerativi per gli imprenditori gli investimenti nel Sud. Dunque c’è un problema di infrastrutture, trascurato negli ultimi anni per il blocco delle spese produttive (preferito alla riforma della spesa corrente). C’è il problema, gravissimo, dell’ordine pubblico, e c’è il problema del costo del lavoro, che deve compensare gli handicap del Mezzogiorno e la maggiore distanza dai nostri mercati di sbocco.

Debbo notare, intanto, che il potere della sinistra ha coinciso con la scomparsa di una cultura meridionalista che, nei decenni passati, ha animato il panorama culturale italiano, con personalità come Saraceno, Rossi-Doria, Francesco Compagna e tanti altri. Considero perciò molto positiva l’iniziativa assunta dal Centro Ideazione di istituire l’Osservatorio sul Mezzogiorno, che punta ad essere laboratorio di progetti piuttosto che anonimo registratore di dati. Bisogna costruire nel Sud una nuova cultura dell’imprenditorialità del lavoro e che sia Ideazione a promuoverla mi sembra indicativo di sensibilità politica ed intellettuale.

Dopo l’elezione del capo dello Stato, si voterà per il Parlamento europeo. Attribuisce rilevanza elettorale interna all’ingresso di Forza Italia nel gruppo del Ppe? Ritiene che il sistema proporzionale, dal quale appunto è regolata quella consultazione, sia il più idoneo a rappresentare la complessa realtà italiana?
Non c’è dubbio, anzitutto, sul fatto che l’ingresso di Forza Italia nel Gruppo popolare europeo sia un evento di grande rilevanza politica, e le reazioni, in qualche caso scomposte, dei nostri Popolari ne sono state la prova più evidente. Se è vero che andiamo verso una integrazione anche politica dell’Europa, se è vero che nel Parlamento europeo e nel panorama politico europeo tendono a crearsi blocchi politici omogenei, non c’è dubbio che il posto dei partiti moderati e che hanno nel loro seno una forte ispirazione cattolica è nel Ppe.

I partiti che, come il Ppi, hanno scelto di stare al governo e in posizione di subordinazione ai partiti comunisti, si troveranno in sempre maggiori difficoltà, e qualcuno di loro comincia già a dire che il posto più naturale è con i partiti socialisti. Ebbene, le elezioni europee dovranno rendere chiara questa scelta, e il loro carattere politico ed il minor peso che in esse hanno clientele e consorterie locali dovrebbero contribuire, più del sistema elettorale, a meglio rappresentare la volontà del Paese.

A proposito di sistema elettorale: sono state raccolte le firme per il referendum che propone l’abolizione della quota proporzionale nelle elezioni nazionali. La componente laica e liberale di Forza Italia ha aderito alla proposta, anche se polemizza con Di Pietro che punta a diventarne il portabandiera. Anche Fini, dopo aver tergiversato, si è dichiarato favorevole. A parte Di Pietro, qual è la Sua posizione nei confronti dell’iniziativa?
“A parte Di Pietro”, dice Lei. Ma è difficile prescindere da Di Pietro che, come era prevedibile, è riuscito a strumentalizzare la richiesta delle firme per il referendum. Anche perché Di Pietro ha un progetto, che è quello di fare del referendum un momento di passaggio per il varo di una legge elettorale a doppio turno di collegio che, non a caso, è preferita dai Democratici di sinistra, poiché volgerebbe a loro favore un marchingegno come quello della “desistenza” da applicare nei singoli collegi, senza una scelta chiara fra due schieramenti contrapposti.

Comunque, sul referendum si dovrà prima pronunciare la Corte Costituzionale; il doppio turno piace ai diessini ma non ai Popolari e a Rifondazione, dunque tutto è aperto a ogni soluzione. L’unica cosa certa è che esiste il problema urgente di una nuova legge elettorale, ed è una delle materie nelle quali non si può procedere unilateralmente, a seconda degli interessi di questo o di quel partito.

Come immagina oggi il cartello politico-elettorale del centro-destra alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento? La politica delle alleanze assume valore strategico. C’è un percorso che si è proposto di seguire?
Le elezioni politiche non sono, anche per il sopraggiungere del “semestre bianco”, fra gli eventi prevedibili nel futuro a noi più vicino. Il tema delle alleanze è importante, ma la soluzione non va cercata nella somma aritmetica delle sigle dei partiti quanto nella capacità di modernizzare la politica, rendendola più sensibile alle grandi aspirazioni degli italiani. Considero un grande successo aver saputo raccogliere intorno ad un programma tutti i moderati italiani che erano divisi e spesso in conflitto tra di loro e di aver dato ad essi la consapevolezza di essere maggioranza nel Paese, di poter perciò legittimamente puntare a governarlo, scrollandosi di dosso la soggezione politica e soprattutto culturale nei confronti della sinistra. Il processo di unificazione dell’area moderata si deve compiere, e ritengo di dover dedicare a questo impegno tutte le mie energie prima che si giunga alla scadenza elettorale.

Apprezzo la vivacità intellettuale che si manifesta anche in atteggiamenti politici differenziati, ma bisogna rendersi conto che nella società moderna un leader è tale non se apre un botteghino elettorale ed inventa una sigla, ma se sa tradurre in sintesi e validamente rappresentare interessi e valori diffusi in vaste aree della società. Questo è quanto mi riuscì di fare nel 1994 ed i moderati abbandonarono le periferie e si collocarono al centro del sistema politico, economico e sociale. Alla grande spinta unificante sono seguite iniziative disgreganti, ma non hanno giovato al Paese e neppure a chi ne è stato l’autore. Alcuni esagitati dirigenti della Lega si esercitano in rozzi tentativi di insulto nei miei riguardi, ma vorrei ricordare loro - anzi, ai loro elettori - che l’intesa con Forza Italia li trasse fuori dall’emarginazione e li investì di responsabilità di governo. Ebbero ministri veri, dotati di poteri reali per favorire lo sviluppo delle categorie produttive. Avrebbero potuto operare concretamente e, invece, preferirono rinnegare l’impegno con gli elettori, stringere alleanze “blasfeme”, tornare ad esercitarsi nei vecchi salti della quaglia. Da allora, oltre a minacciare secessioni, si sono baloccati inventando parlamento, governo e ministri falsi, giocando come i bambini con i soldatini di cartapesta.

Quale è il rapporto con il movimento di Cossiga?
Stimo Cossiga e nessuna contingenza polemica mi farà dimenticare i suoi meriti, perché senza il suo coraggio il treno del cambiamento non sarebbe mai partito. Però non riesco a seguirlo in queste dichiarazioni di disponibilità a dare voti a un governo che definisce incapace e tuttavia vuol contribuire a far sopravvivere, qualora Bertinotti dovesse privarlo del suo appoggio. È come se si perpetuasse il principio del ribaltone, che resta completamente estraneo alla mia mentalità ed alla mia interpretazione della politica. Penso di essere in sintonia con la maggioranza degli italiani che vorrebbe veder chiaro nei comportamenti dei politici, capire da quale parte stanno, quali interessi sostengono, quali obiettivi perseguono.

Che l’Ulivo sia al governo è un dato con cui bisogna fare i conti e che dobbiamo adoperarci a rimuovere; è un incidente che è capitato per ingenuità, anche per errori che abbiamo commesso, ma soprattutto perché, dopo cinquant’anni di potere, la formazione di una nuova coscienza del Paese e di una nuova classe dirigente richiede tempi lunghi. Non è vero che la sinistra è moderna, progressista, destinata a restare al potere per non so quanti lustri. Non è neppure vero che dispone di una classe dirigente preparata. È falso che possa rapidamente aggregarsi intorno ad un programma moderato, “europeo”, come oggi dicono affidando a questo aggettivo tutto quel che hanno per sentirsi meno vecchi e scontati. Non c’è solo la posizione stridente di Bertinotti; ci sono gli sconfitti della storia, gli ex comunisti e i cattolici di sinistra, con la loro concezione dello Stato interventista e della libertà condizionata.

Noi siamo molto più avanti rispetto a loro e dobbiamo cogliere ed utilizzare questo elemento per costruire la grande alleanza dei moderati. Penso che debbano stare insieme quanti possono ritrovarsi in un progetto liberale della società italiana.


Le riflessioni di un filosofo
sul mondo che cambia.

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Un occhio indiscreto e dissacrante nei Palazzi del potere.
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