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da Ideazione luglio-agosto 1995
"Il mio Contratto con l'Italia"

intervista a SILVIO BERLUSCONI di DOMENICO MENNITTI

[21 apr 08] Ritengo innanzitutto opportuno chiarire i rapporti della rivista, ma di più quelli miei personali con Silvio Berlusconi. Non perché sia stato colto da un soprassalto di vanità e voglia rendere pubbliche le frequentazioni private, piuttosto perché intendo garantire il lettore sulla autenticità del documento politico che scaturisce da questa intervista. Essendo stato uno dei collaboratori vicini al leader di Forza Italia e facendo tuttora parte del Comitato di presidenza di quel movimento; avendo anche la rivista esplicitamente dichiarato la propria area di riferimento, può insinuarsi il dubbio che l'intervista sia stata concepita come un pasticcio da confezionare in famiglia, priva perciò della forza che un messaggio politico deve avere.

Il fatto che Ideazione sia schierata non significa che essa debba svolgere un ruolo di propaganda a favore della parte di cui sostiene le ragioni. Anzi, proprio perché ha una posizione definita e dichiarata, diventa determinante l'opera di approfondimento, di stimolo, di critica. Ho attribuito a me il compito di intervistare Silvio Berlusconi perché penso di potermi proporre come garante di una analisi che deve essere approfondita e spietata, tale da cogliere dalla rievocazione dei meriti, ma pure dal riconoscimento degli errori, la capacità di definire la strategia del futuro prossimo, la individuazione di un programma credibile costruito sulla compatibilità fra bisogni da soddisfare e risorse da reperire, la selezione di una classe dirigente finalmente all'altezza del suo ruolo. Su questi temi, come i lettori di Ideazione sanno, personalmente non sono stato in sintonia con il leader dopo la grande stagione della campagna elettorale e su di essi intendo sviluppare l'intervista, che è stata programmata unicamente per misurare le potenzialità di successo del Polo e del suo uomo-simbolo.

Il passaggio referendario sui tre quesiti televisivi era stato organizzato come un'aggressione mirata a far fuori un personaggio scomodo. Berlusconi ha molto temuto l'evento, che si sarebbe potuto risolvere nell'esproprio del patrimonio costruito in anni di impegno imprenditoriale, dal quale ha tratto successo e fortuna; infine, lo ha affrontato con determinazione, rimettendosi al giudizio degli italiani e respingendo l'ipotesi compromissoria ‑ sostenuta dagli avversari ma pure da taluni amici ‑ di trovare una intesa, di farsi tagliare una gamba, insomma, e di rassegnarsi ad un avvenire da grande invalido pur di salvare la pelle. L'uomo ha, invece, superato di slancio il lento logorio al quale è stato sottoposto, dopo l'uscita da palazzo Chigi, da avversari ed alleati: i primi legittimati a combatterlo (ma nella lotta politica c'è un limite di civiltà che dovrebbe essere sempre rispettato), i secondi addirittura più insidiosi perché adusi a muoversi sul terreno vischioso dell'ipocrisia, sempre pronti a dispensare consigli suicidi, sussurrati con l'atteggiamento di chi vuol dare ad intendere che ha cura della tua salute.

Incontro Berlusconì nella sua casa romana di via dell'Anima, due giorni dopo la domenica referendaria, al rientro nella capitale a chiusura di una settimana vissuta alla vecchia maniera nel quartier generale di Arcore. Dopo mesi di tensione, determinata anche da un vivace confronto sull'analisi dei risultati elettorali amministrativi e sul modo di recuperare il terreno perduto, l'approccio è sereno: "Credo di aver ristabilito il rapporto di fiducia con gli italiani ‑ dice ‑ ora dobbiamo restituire alla politica il ruolo di governare il Paese. Non c'è ragione di conservare questa sorta di commissariamento che impone alla guida dell'Italia un governo impropriamente definito tecnico. Gli italiani hanno riaffermato la volontà di procedere al rinnovamento ed hanno sconfitto i partiti e le organizzazioni che si sono mossi con intenti faziosi, con spirito di conservazione. Mi riferisco ai partiti della sinistra, che da una parte invocano le regole e dall'altra hanno tentato di farmi fuori usando i quesiti referendari come pallettoni di lupara, ed alle organizzazioni sindacali che hanno agito contro il mio governo con il solo intento di determinarne la caduta. Senza avvertire lo scrupolo del danno che provocavano all'economia, che viveva una difficile fase di riassetto in una condizione di grave turbolenza internazionale".

Dopo qualche tentennamento, determinato anche dalla esigenza di cono­scere l'esito referendario, ora lei scopre le carte e chiede con determinazione il voto in autunno. Questa scelta ne include un'altra, la definizione del suo ruolo di leader all'interno del polo moderato. Sottolinearlo non è portare in evidenza una ovvietà, perché lei è stato fatto oggetto nelle scorse settimane da parte di qualche alleato (ma in verità anche di qualche esponente del movimento) di due sollecitazioni diverse e tuttavia entrambe tendenti ad indebolire la sua leadership. I sostenitori del ”passo indietro" si sono articolati su due posizioni: la prima le chiedeva di fare un passo indietro rispetto a palazzo Chigi, la seconda di farlo invece rispetto a Forza Italia, proponendosi come leader del Polo. Non le sembra tempo di rendere pubblica ed ufficiale la sua posizione, sgombrando il campo da equivoci ed anche da illusioni di successione?
Un leader non lo è davvero solo perché si proclama tale; lo diventa quando i cittadini lo eleggono a tale ruolo. Io sono passato attraverso il giudizio degli elettori ed in questi giorni ho ricevuto una importante conferma. Dagli elettori, appunto, non da un numero più o meno folto di segretari di partito. Non mi dispiace affatto deludere quanti attendevano il mio passo indietro per ritrovarsi senza nessuno sforzo in prima fila e mi piace, invece, confermare agli elettori l'impegno che guiderò la prossima competizione elettorale, nella certezza di rinnovare e consolidare il successo del 27 marzo dell'anno scorso. Non faccio un passo indietro neppure rispetto a Forza Italia perché un leader è tale solo se rappresenta un movimento forte del consenso popolare. lo non mi consegno in ostaggio ad un gruppo di segretari di partito chiedendo di candidarmi a palazzo Chigi; diventerei simile a Prodi ed invece voglio sottolineare la diversità della mia posizione. Sono il fondatore e il presidente del più forte movimento della coalizione moderata ed in quanto tale mi candido alla guida del governo. Con il consenso degli altri componenti la coalizione, ovviamente; ma la selezione la fanno gli elettori; altrimenti torneremmo indietro, quando personaggi espressione di piccole percentuali pretendevano di assumere centralità politica in forza dei veti incrociati. Quel sistema è finito, perché aveva paralizzato il Paese e gli italiani lo hanno cancellato. Ne ho parlato con Fini, che si è dichiarato del tutto d'accordo.

Definito il suo ruolo e posta la richiesta di votare in autunno, torna di attualità il tema delle "regole". A me sembra che lei se ne sia quasi innamorato, che abbia maturato il convincimento che si debba aprire un tavolo di trattative. In una dichiarazione resa dopo aver appreso il risultato dei referendum ha invitato D'Alema ad affrontare questo problema. Cosa intende lei per "regole"? Cè, infatti, una tendenza diffusa a far entrare nella trattativa tutto: il conflitto di interessi, la legge elettorale, le riforme costituzionali...
Per quel che riguarda il conflitto di interessi ho già dichiarato che risolverò per tempo, cioè prima delle elezioni, il mio personale problema. Lei è testimone del fatto che, quando decisi dì entrare in politica, avevo già maturato questa decisione; però nessuno può contestare che le sinistre hanno inventato ogni tipo di ostacoli al fine di impedire, di fatto, la cessione e perciò non è stato possibile risolverla con maggiore celerità. Mi ha sentito dire altre volte che, pur orgogliosissimo di quanto da imprenditore ho realizzato, mi va stretta questa definizione di "uomo Fininvest. Quando si sceglie di servire il proprio Paese, è agli interessi generali che bisogna totalmente dedicarsi. Ho già fatto questa scelta e neppure su di essa intendo fare passi indietro. Non sono contrario ad affrontare il tema della riforma elettorale, ma nel senso di dare maggiore coerenza al sistema rispetto alla volontà espressa dagli elettori. Il maggioritario è stato stravolto in Parlamento con la introduzione di una quota proporzionale. Bisogna eliminarla e togli ere alla nomenklatura la possibilità di entrare in Parlamento attraverso una scorciatoia che consente di evitare il giudizio degli elettori. Ribadisco la determinazione a conservare il turno unico, che ritengo risolutivo rispetto alla tentazione di far rinascere partiti che si propongono come "aghi della bilancia” adusi a prendere i voti alla spicciolata per riversarli all'ingrosso secondo la convenienza dei dirigenti. Se sarà possibile trovare una intesa, tanto meglio; se no, sarà opportuno tornare a votare con la vecchia legge rinviando alla prossima legislatura la stagione delle riforme.

Da più parti la richiesta è diversa: prima le regole e poi alle urne. Si sostiene che lei sia in preda all'ossessiva volontà di votare. Non chiede altro e ‑ dicono ‑ questo perché sa porsi un solo obiettivo, tornare a palazzo Chigi.
La contestazione è davvero propagandistica, priva di un minimo di analisi. là vero che io ho chiesto le elezioni dopo che Bossi ha messo in crisi la maggioranza emersa dalle urne il 27 marzo, ma non perché sono animato dalla voglia di rivincita. Il maggioritario non è semplicemente un sistema elettorale, è il primo fondamentale passo verso il nuovo sistema politico. Il mio principale interesse è che emerga una definitiva curvatura in senso maggioritario dei nostro sistema politico e ciò può avvenire solo se i partiti comprendono che, se si mette in crisi una maggioranza, non si fanno pastrocchi, governi tecnici, di salute pubblica, costituenti o balneari; si torna davanti agli elettori.

Voglio ricordare che ho chiesto le elezioni politiche anche quando i sondaggi non erano favorevoli a noi, ma perché ho ben presente che l'obiettivo delle riforme può essere centrato solo se lo persegui con coerente iniziativa, senza adattare questa alle tue particolari convenienze. Se è chiaro il meccanismo che non si possono mercanteggiare i voti in Parlamento, ma che le scelte compiute al momento delle elezioni sono irrevocabili, si creano i pre­supposti per la stabilità politica.

A proposito di elezioni e referendum, D'Alema chiede il doppio turno, facendo il verso a lei che interpreta politicamente il no ai referendum sulle televisioni. Sostiene che il diniego a cambiare la legge per la elezione dei sindaci significa che gli italiani vogliono il doppio turno.
Francamente mi sembra una interpretazione molto di parte, tiratissima. Innanzitutto perché sono diversi gli organi alla cui elezione le norme si riferiscono. Il sindaco è un'istituzione monocratica, il Parlamento no. Rispetto alla legislazione precedente, la nuova legge ha introdotto nei comuni un elemento di stabilità che evidentemente gli italiani hanno apprezzato. Il successo è stato risicatissimo, però non voglio far ricorso a questo argomento: ha vinto il sì e se ne prenda atto. Ma sul piano generale il discorso è totalmente diverso. Vale per tutti l'argomento che il turno unico riduce a funzioni essenziali e proprie il ruolo dei partiti, la cui degenerazione è stata causa della crisi dello Stato. Ripeto: bisogna condurre l'Italia al sistema bipolare, considerando che non sono ancora maturi i tempi per un sistema bipartitico. Però l'unità politica e programmatica all'interno di ogni area non può essere messa in discussione ogni volta che un partito chiede un ministro in più, tre assessori invece di due. Il mercato degli eletti è stato fra gli spettacoli più avvilenti del vecchio sistema e togliere ai partiti la tentazione di mercanteggiare, di poter essere "aghi della bilancia" è una delle esigenze primarie se vogliamo davvero moralizzare la politica italiana. Tutto ciò può determinarlo, a livello di elezioni politiche generali, solo il turno unico.

Con il riferimento ai “partiti-aghi della bilancia " lei ha introdotto un altro tema scottante del dibattito in corso: il centro, la pretesa nostalgia. del centro, i raggruppamenti minori che puntano a riorganizzarsi per ricostituire il centro. Personalmente penso che nessuno mai potrà riprodurre quel che è stato e non potrà più essere; però la Dc (il suo modo di essere, di mediare, di non tagliare mai netto il giusto dall'ingiusto, il lecito dall'illecito, il bene dal male; quella filosofia del "tutto si può aggiustare') gli italiani l'hanno ripudiata, i politici ‑ e non solo quelli di vecchio stampo ‑ no. C'è da rilevare che, mentre sino all'anno scorso il discrimine era chiaro, nel senso che il Polo era tutto orientato per il cambiamento, ora è proprio all'interno del­l'area moderata che si rimpiange il passato. Buttiglione, Casini, Mastella, ma pure dirigenti di Forza Italia, quali Urbani e Dotti, partecipano a sedute spiritiche per evocare il centro perduto. E, intanto, chiedono che non si voti in autunno, che si adotti il doppio turno, che per la guida del governo non c'è motivo per decidere subito. Lei che ne pensa?
Io sono un liberale vero, come tale dotato di tolleranza, nel senso che seguo il dibattito con vivo interesse e ritengo utile che ognuno esprima la propria posizione, rappresenti le proprie idee. Ovviamente ho le mie idee, che sono pronto a confrontare ed anche a sostenere con forza. Penso che si faccia confusione e non sempre involontariamente, nel senso che si vuol fare intendere che nel Polo sono prevalsi atteggiamenti e comportamenti di tipo estremistico, mentre gli italiani cercano moderazione, tranquillità, sicurezza. Intanto si confonde il centro da luogo degli elettori a sede dei partiti politici e ci si ostina a non voler prendere atto che la differenza non è nominalistica, ma di sostanza. Perché il primo scenario corrisponde al sistema elettorale maggioritario, il secondo a quello proporzionale. Se la scelta è a favore del maggioritario, consegue che il sistema politico è bipolare, per cui l'attenzione deve essere diretta a guadagnare il consenso degli elettori di centro, non a creare baracchini elettorali collocati al centro.

Se poi, come immagino, qualcuno intende riferirsi ai comportamenti che personalmente ho assunto in questi mesi, rammento a tutti che ho dovuto tener testa ad una aggressione che mai è stata cosi intensa, articolata, scorretta nei confronti di un presidente del Consiglio. E l'ho fronteggiata sempre in prima persona, consentendo ad altri di starsene in seconda fila a giocare di rimessa. Ma non ne sono affatto pentito, perché la buona politica esige moderazione, esperienza, cultura, ma pure carattere, la forza di sostenere e difendere la propria pulizia, la propria moralità. lo l'ho fatto e gli italiani mostrano di avere apprezzato tale comportamento. Mentre i censori si arrovellano per stabilire quello che dovrei fare io, proponendo la scelta eroica del passo indietro, gli italiani mi spronano ad andare avanti. Dalla furia aggressiva degli orfani del vecchio sistema, dalla denigrazione della grande stampa, dalla sensibilità di quei magistrati che mi hanno fatto recapitare un avviso mentre rappresentavo l'Italia in un consesso internazionale, mi sono difeso con forza, direi pure con successo. Pensavano ‑ tutti ‑che Berlusconi dovesse essere una meteora, un ingombro da poter spazzare via con facilità. Quando si sono trovati a malpartíto hanno usato il bulldozer, sperando di portarsi via tutto, l'azienda insieme al titolare. Ora si stanno rendendo conto che non è così: che ho dato voce agli esclusi della prima Repubblica, che voglio mettere in pista gli italiani di buona volontà e di sani principi, che voglio riformare lo Stato e, soprattutto, che sono un dato permanente con cui debbono fare i conti. Una rivoluzione non si può compiere tra inchini e minuetti. Ora che è chiaro a tutti che non mi possono far fuori, anche gli avversari "ragioneranno", per usare il verbo caro a D'Alema, che mi sembra l'abbia ereditato da De Mita. Ed il Polo assicurerà agli italiani un clima politico più civile, più sereno, quello che gli elettori di centro gradiscono e che i vecchi partiti di centro hanno disperso.

Però sono stati anche commessi molti errori, alcuni incomprensibili. Primo fra tutti la disorganizzazione dì Forza Italia, la tesi del non-partito, l'ostinazione a reprimerne lo sviluppo. Lei sa ch'io sostengo che la partita del nuovo si gioca sulla capacità o meno di costituire un grande movimento liberale di popolo, che dia finalmente agli italiani uno strumento nuovo di aggregazione e di partecipazione, superando l'organizzazione ottocentesca dei partiti di massa. Il polo moderato si articola chiaramente su due tronconi: il partito democratico di destra, che si chiama Alleanza nazionale, ed il movimento completamente nuovo uscito dalle macerie della prima Repubblica. Fini ha compiuto a Fiuggi i passi necessari per poter essere a pieno titolo alleato di..., del movimento liberale che non c'è. Se non ci sarà ancora per molto, Forza Italia, che deve essere il punto di forza del cambiamento, diventerà il punto di debolezza, di crisi; produrrà disaggregazione, proliferazione di sigle, nostalgia del passato. La velleità di rianimare la balena bianca è il prodotto di questa situazione d'incertezza.
Certo, il movimento non gode di ottima salute e so bene quanto lei sia critico su questo piano. Però so anche che, quando sei nuovo ad un settore, devi fare esperienza. Ci sono tempi che non possono essere bruciati. Mi è capitato altre volte nella vita ed ho recuperato poi rapidamente. Sono consapevole che si lamentano ritardi organizzativi e pure di identificazione della linea politica: che non siamo radicati bene sul territorio, che dobbiamo selezionare la classe dirigente, che dobbiamo attualizzare il programma. Ma lei sa come abbiamo cominciato, fra quali difficoltà, fra quanto scetticismo. E poi i partiti erano discreditatissimi, in cima alla disapprovazione dei cittadini. Noi fummo accorti a scegliere i candidati fra quanti erano rimasti estranei alla politica ed i club si affollarono di cittadini contenti di mettere piede in luoghi liberi, dove si lavorava con entusiasmo e non si spartiva potere, non si combinavano appalti, non si facevano imbrogli lucrando sul pubblico denaro. Non ho difficoltà ad ammettere che ha molto pesato su di me la preoccupazione che si potessero mettere in moto vecchi meccanismi con tessere e correnti, che spuntassero piccole centrali di potere inventate per condizionare gli eletti, che sono anche stati i nostri primi credenti, i primi militanti, i primi dirigenti.

Ma la politica ha le sue regole e la organizzazione è una di quelle dalle quali non si può prescindere. Adesso faremo sul serio, convocheremo il congresso, definiremo le regole di democrazia interna, faremo il passaggio dal partito nato nell'azienda al partito della intera società italiana. Dovremo curare, però, di non perdere la nostra specificità, noi che non abbiamo mai imposto quell'odiosa rappresaglia contro i dissidenti che si chiama disciplina di partito; noi che preferiamo il club alla sezione e siamo tutti senza tessere perché nella verità siamo refrattari alla concezione del partito-chiesa, del partito-setta.

Guai se Forza Italia imitasse i vecchi partiti: sarebbe come dichiarare la sconfitta. Sul piano della vecchia politica tutti sono più bravi, così come tutti furono travolti quando, nel 1994, il movimento si propose con una nuova formula organizzativa, propagandistica, di immagine e di programma. Perché si affermi un movimento con tali connotati, però, è necessario che la classe dirigente sia di alto livello culturale e di grande iniziativa politica. Questo è un problema carico di difficoltà e di incognite: Tangentopoli ha spazzato via almeno tre generazioni dei vecchi dirigenti ed i personaggi venuti alla ribalta pubblica in questi mesi sono nuovi, inesperti. Di questi ultimi alcuni sono destinati ad emergere, altri a rientrare nei ranghi professionali. Dove, come si forma oggi la classe dirigente?
Direi che la nuova classe dirigente dovrà formarsi in fretta, sul campo. il costo più pesante che paghiamo a Tangentopoli, ma è anche uno stimolo a rimescolare le carte, a portare in evidenza professionalità che la vecchia gestione clientelare del potere aveva emarginato. Dove si forma la nuova classe dirigente è difficile individuarlo. Non ci sono più le vecchie scuole di partito e penso che non saranno più costituite, nessuno le frequenterebbe anche se riaprissero i battenti. In compenso, mi sembra che siano più attive le università e che docenti e studenti stiano riscoprendo insieme la cultura liberale che in Italia per troppi anni non è stata diffusa. Noto che si stanno aprendo nuovi orizzonti ed a questo compito assolvono anche varie apprezzabili iniziative editoriali. Non sono pessimista a questo riguardo: sento intorno a noi un interesse più diffuso di un anno fa. Bisogna non sbagliare le scelte e puntare solo a premiare il merito.

Lei ha detto, rispondendo ad una precedente domanda, che bisogna attualizzare il programma. Questo è un altro punto dolente, perché Forza Italia disegnò un interessante itinerario programmatico prima delle elezioni e in gran parte lo riversò negli impegni di governo. Ma nelle iniziative dell'esecutivo da lei presieduto si fa fatica a trovarne traccia: le riforme proposte o realizzate in settori delicatissimi (scuola, università, sanità) si sono mosse in tutt'altra direzione ed hanno fatto registrare dissensi e delusioni fra chi aveva votato il Polo sperando che si avviasse una fase che almeno facesse intravvedere una inversione della vecchia tendenza assistenzialista e statalista. Bisogna certamente attualizzare il programma, ma an­30 che garantirne l'attuazione nel caso il Polo tornasse al governo.
Un anno e mezzo fa dovemmo improvvisare un po' tutto, ma riuscimmo a mettere insieme un programma che si proclamava liberale e che introduceva interessanti elementi innovativi. Era però un programma di principi, di indirizzo, che andava poi confrontato con le disponibilità di un bilancio anelastico, orientato a trasferire risorse al settore pubblico. La formazione dei governo fu uno dei primi miei atti politici e fui impegnato a far quadrare equilibri, rapporti, aspirazioni, competenze. Ho già detto di aver invidiato Dini solo perché egli ha potuto formare il suo governo senza consultare segretari di partito, senza convocare vertici, senza subire le pressioni che sono inevitabili dopo una campagna elettorale. Anche su questo piano l'esperienza è maestra e credo che, se dovessi ripetere l'operazione, sarei meno indulgente, valuterei con maggior rigore uomini e competenze. Però, a parte il fatto che rivendico complessivamente al mio governo risultati innovativi importanti per favorire la ripresa delle imprese e l'occupazione, debbo rilevare che giungemmo all'appuntamento della legge finanziaria con un documento che ottenne il consenso dei settori più responsabili della opinione pubblica e che rilanciò l'immagine dell'Italia nel concerto internazionale. Contro questa legge, che per la prima volta dopo molti anni non prevedeva aggravi fiscali, l'opposizione chiese ed ottenne la complicità dei sindacati che, prendendo a pretesto la riforma delle pensioni, scatenò la piazza. Uscendo da un lungo torpore, da un tempo oscuro di acquiescenza ai governi precedenti, i sindacati hanno svolto uno sciopero generale e ne avevano già pronto un secondo. Il mio governo è caduto sotto l'azione combinata dei dirigenti sindacali e di Bossi, demagogicamente passato all'opposizione non tanto perché non condivideva la riforma pensionistica quanto perché voleva fare il ribaltone. Sono disponibile a valutare le critiche, ma non accetto la tesi distruttiva di un governo che non ha fatto il bene del Paese. Comunque, il programma è già in cantiere: individueremo le emergenze e le affronteremo tutte con strumenti legislativi adeguati. Faremo come i repubblicani americani. Sottoscriveremo un contratto con gli elettori e nei primi cento giorni successivi alle elezioni tradurremo gli impegni programmatici in atti parlamentari.

A proposito di impegni programmatici, ce n'è uno del quale pare si siano tutti dimenticati, il federalismo. Lei intende assumerlo seriamente, ritiene sia utile rilanciarlo o intende definitivamente accantonarlo?
Quando mi determinai ad entrare in politica, mi posi come primo obiettivo l'intesa con la Lega, proprio valutando la forza della proposta federalista sull'organizzazione dello Stato. Ritengo, peraltro, che fu determinante, ai fini della conquista del consenso, l'intesa tra Forza Italia e Lega, due movimenti del Nord, il luogo dove il vecchio regime era caduto à causa dell'offensiva giudiziaria ma pure a causa della incapacità del sistema politico di governare la società. Uallargamento dell'accordo ad Alleanza nazionale e al Ccd completò non solo il quadro delle alleanze all'interno del polo moderato, ma il quadro di una larga intesa generale di rinnovamento che coinvolse anche il Sud e fu sottoscritta in base ad una formula costituzio­nale che coniugava presidenzialismo e federalismo. Se non se n'è fatto niente, la colpa è esclusivamente di Bossi, che agita il federalismo come argomento di propaganda e basta. Penso che dovremo molto lavorare a scindere la figura e l'azione di Bossi dall'idea del federalismo, perché questo è il vero tema al quale gli elettori leghisti sono a ragione vincolati. Bisogna dimostrare con i fatti che combattere Bossi è utile non a Forza Italia, ma al Paese ed al suo sistema politico, essendo egli un guastatore al servizio di interessi di bottega e, forse, anche di più vasti interessi internazionali pericolosi per l'integrità dell'Italia.

Le faccio una domanda che è sulla bocca di tutti: può abitare palazzo Chigi un personaggio che dovrà riempire l'agenda di appuntamenti con i magistrati, che dovrà frequentare da imputato le aule del Tribunale?
Questa domanda esige una risposta rigorosa. lo sento di essere la vittima di una lotta di potere fra i poteri dello Stato. Riconosco ai magistrati il merito di avere inferto il colpo decisivo alla partitocrazia; so che Forza Italia ed io stesso non saremmo mai nati alla politica, se non ci fosse stata la loro azione che impose l'esigenza che scendesse in campo una nuova classe dirigente e si costruisse una forma di organizzazione dei movimenti politici senza le vecchie e costose strutture, causa o pretesto di imbrogli e corruzione. Però, ad un certo punto è accaduto che una parte della magistratura, dislocata prevalentemente nella fascia inquirente, abbia pensato che il proprio compito non si esaurisse nel ristabilire la legalità, ma potesse andare oltre. E che essa stessa potesse proporsi per assumere un ruolo politico, usando ed abusando del terribile potere giudiziario. Terribile perché agisce sulla libertà del cittadino. Non ho dimenticato quel che disse Borrelli mentre era in formazione il mio governo ed avevo proposto ad un componente del pool la titolarità di un importante ministero. Richiesto da nessuno di un parere, egli intervenne quasi fosse il capo di un partito, dichiarando che i magistrati. avrebbero risposto positivamente solo ad un invito del capo dello Stato. Ma il presidente della Repubblica chiama per conferire l'incarico di formare il governo; se riceve per altre ragioni, il fatto non ha rilevanza e Borrelli quel riferimento se lo sarebbe potuto risparmiare.

Dico che i magistrati ‑ alcuni magistrati, per essere precisi ‑ hanno vissuto una prima fase, nel corso della quale hanno perseguito i responsabili, scoprendoli attraverso le notizie di reato emerse nel corso delle varie inchieste; da un certo momento si sono scelti presunti responsabili da perseguire sulla base di un teorema arbitrario nelle premesse e nelle deduzioni: "Siccome in Italia in una certa epoca tutto ha funzionato male, scopriremo fatti illeciti ovunque". Così hanno preso d'assalto la Fininvest, l'hanno fatta assediare dalla Guardia dì finanza, hanno bloccato l'azienda sottoponendola a perquisizioni giornaliere, hanno costruito imputazioni assurde. Il fatto che, come ho già ricordato, mi abbiano fatto recapitare un avviso di garanzia mentre da presidente del Consiglio ero impegnato in una assise internazionale, informandone prima il quotidiano più diffuso, è una pagina oscura di persecuzione, un atto indegno di una società civile. Un noto giurista, che è stato parlamentare ed anche membro dell'organo di autogoverno dei giudici, sostiene in un suo libro che è in atto un golpe dei magistrati. lo non arrivo a sostenere tanto, ma che qualche tentazione ci sia non è possibile escluderlo.

Comunque, sono personalmente impegnato per una battaglia garantista. In un Paese dove tutti sono diventati titolari della repressione, cerco chi garantisce il diritto dei cittadini. Del cittadino Berlusconi e di tutti i cittadini italiani. Questo vale per i moderati come per i progressisti: niente più guerre politiche a colpi di atti giudiziari. La politica è una cosa, la giustizia un'altra. Non avrò difficoltà a salire le scale di palazzo Chigi e quelle del palazzo di Giustizia; anzi, mi sentirò cittadino uguale agli altri, non un privilegiato, al riparo dal rigore della legge, coperto dall'immunità parlamentare. Non temo il giudizio, temo l'incriminazione arbitraria.

La linea mi sembra tracciata ed anche i tempi degli appuntamenti decisivi sono ormai scanditi, credo irrevocabilmente fissati. Berlusconi in questa lunga intervista ha meditato sul passato, ma ha soprattutto indicato gli obiettivi prossimi in un confronto che si annunzia Più incerto sull'esito, più composto nella contrapposizione. Destra e sinistra, moderati e progressisti cominciano a maturare il dato che il loro destino è confrontarsi, non delegittimarsi, disconoscersi. E, quando saranno sul filo di partenza uomini e idee, vinca pure chi più l'avrà meritato. Nell'Italia sottoposta al ricatto del salto nel buio perché le cose restassero tragicamente sempre eguali, sta forse per realizzarsi il sogno della normalità. Chi vuol cambiare, cambi il voto e dia un calcio a tutte le intimidazioni.


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