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L'attentato a Karzai rilancia la war on terror
di MATTEO GUALDI

[29 apr 08] Il presidente afgano, Hamid Karzai, è stato oggetto domenica di un fallito attentato. Il fatto, di per sé gravissimo, assume un’importanza ancora maggiore se si considera che esso è avvenuto in piena Kabul, la capitale afgana, un simbolo della nazione, un luogo considerato sostanzialmente sicuro. Inoltre, ulteriore rilevanza all’attentato è data dal fatto che non è avvenuto in una domenica qualunque, ma nel giorno che doveva rappresentare il rinnovato orgoglio nazionale. L’attentato, infatti, è avvenuto durante una parata militare che era stata organizzata per festeggiare il Mujahedin day, le celebrazioni in ricordo della vittoria della resistenza afgana sui sovietici, negli anni Ottanta. Il Presidente Karzai è uscito illeso dall’attentato, che ha comunque fatto tre vittime: un bambino di dieci anni, un membro del Parlamento ed un capo tribù. Per Karzai si tratta di un duro colpo, e di un grosso danno d’immagine. Da un lato, infatti, i terroristi hanno dimostrato di riuscire ad arrivare vicinissimi al Presidente, provando di avere complicità importanti all’interno delle forze di sicurezza; dall’altro hanno dato prova del fatto che neppure la capitale, Kabul, può dirsi sicura. Le immagini degli ufficiali, dei diplomatici e dei parlamentari che scappano in preda alla paura hanno fatto il giro del mondo, gettando la popolazione afgana in un profondo senso di insicurezza. Se è vero che il bersaglio principale, il presidente, è stato mancato, tuttavia l’obiettivo secondario di qualunque atto terroristico, cioè la volontà di provocare paura, terrore appunto, nella popolazione, di generare insicurezza, di dimostrare la propria capacità di colpire chiunque ed ovunque, è pienamente riuscito.

Ed ovviamente la rivendicazione non si è fatta attendere. Poco dopo, infatti, il portavoce dei Talebani, Zabiullah Mujaheed, ha rivendicato l’attacco, sottolineando che l’intento era soprattutto dimostrativo (ma tradendo in realtà un evidente nervosismo per il fallimento dell’azione dei suoi uomini). Il presidente Karzai, invece, è apparso in televisione un’ora dopo l’attentato per dimostrare agli afgani che tutto andava bene e che era scampato al pericolo. “I nemici dell’Afghanistan, i nemici della sicurezza e dello sviluppo dell’Afghanistan, hanno cercato di interrompere le celebrazioni e di creare paura”, ha detto. “Fortunatamente, le forze di sicurezza li hanno fermati, ed hanno arrestato alcuni sospetti. Grazie a Dio, ora tutto va bene. Gli afgani devono stare calmi ed avere fiducia”. Ma nonostante l’apparente ottimismo, l’attentato torna ad accendere i riflettori sullo scenario afgano e sulla capacità operativa dei Talebani. Per nulla sconfitti, essi si sono da tempo rifugiati nelle regioni di confine pachistane, dalle quali passano facilmente in Afghanistan, attraverso una frontiera che esiste solo sulla carta. Il presidente pachistano Musharraf non è riuscito, in questi anni, ad eliminare il problema ma solo a tenerlo parzialmente sotto controllo. Ora che il suo potere è indebolito, dopo la sconfitta alle elezioni politiche dei mesi scorsi, i Talebani stanno riacquistando vigore, anche per le trattative che il nuovo governo ha deciso di intavolare con loro. Il dialogo tra il governo di Islamabad, guidato dal primo ministro Yousaf Raza Gilani, ed i terroristi non solo legittima agli occhi della popolazione le attività criminali dei Talebani, ma dimostra quanto il nuovo governo si senta impotente di fronte alla minaccia che essi rappresentano.

Un governo che sembra più interessato ad arginare il potere del presidente Musharraf che quello dei Talebani non rappresenta certo una garanzia per l’Occidente e non promette niente di buono. Ed infatti la portavoce della Casa Bianca, Dana Perino, ha dichiarato: “Siamo molto preoccupati e lo incoraggiamo (il Governo Pachistano, n.d.r.) a continuare la lotta contro i terroristi e a non interrompere qualsiasi operazione in corso, per evitare di creare un paradiso sicuro per i terroristi in quelle zone”. In effetti l’accordo comporterebbe il ritiro delle truppe dell’esercito pachistano dalle regioni di confine, in particolare dal nord-ovest del Paese, dove si verrebbe nuovamente a creare un santuario per i Talebani, che ne approfitterebbero per farne nuovamente una base logistica per i loro attacchi in Afghanistan. Da parte loro, i terroristi fermerebbero ogni ostilità sul territorio pachistano, accettando il cessate-il-fuoco. Ma un accordo simile, stipulato nel 2006, aveva già dimostrato di non funzionare, ed aveva portato ad una recrudescenza delle attività dei terroristi nel Paese vicino, a danno, in particolare, delle forze della Nato. In definitiva, è questo spinosissimo scenario che si troverà ad affrontare nei prossimi mesi il generale Petraeus, che è stato recente promosso a capo del CentCom, il Comando Centrale degli Stati Uniti, che copre un territorio che va dall’Egitto al Kenya, dal Pakistan al Kazakhstan. Così dopo i successi nel teatro iracheno il presidente Bush ha voluto premiare il generale, affidandogli, di fatto, la responsabilità di guidare la War On Terror, nella speranza che le sue capacità portino ad una svolta nelle operazioni. Chiaramente la situazione afgana è diversa da quella irachena, ma Bush conta proprio sull’abilità di Petraeus di “leggere” la situazione e di coinvolgere tutti gli attori locali nel processo che dovrà portare dalla sicurezza alla pace.


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