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Una riforma della giustizia senza complessi
di ENRICO GAGLIARDI

[29 apr 08] La Costituzione come crocevia di una riforma liberale della giustizia; ma non solo. Accanto a questa possibilità ne esiste un’altra, quella della legge ordinaria, la quale non prevedendo il procedimento aggravato, e dunque una maggioranza estremamente rigida, può consentire una svolta garantista del nostro ordinamento. Sull’argomento si è scritto tanto: la nuova maggioranza potrebbe, e forse dovrebbe, partire da una “rivoluzione codicistica” attraverso commissioni di riforma che siano in grado di svecchiare il nostro diritto sostanziale e processuale, troppo spesso ancorato ad un passato davvero poco lodevole. Commissioni di riforma, dunque, ma non come le precedenti, tutte miseramente naufragate per contrasti politici o perché travolte dalla caduta dei governi che l’avevano istituite. Andrebbe immediatamente ricomposto, per esempio, quel manipolo di giuristi che durante il governo Prodi ha lavorato ad una normativa di riforma sulla responsabilità penale degli enti, tema sempre più attuale (i casi Parmalat e Cirio insegnano qualcosa). Quella commissione, con a capo uno dei maggiori esperti del settore, Francesco Greco, stava producendo materiale davvero notevole; purtroppo la fine della maggioranza di sinistra ha decretato lo scioglimento della commissione stessa. Nell’ambito del rito penale poi, la riforma dell’89 ha contribuito a portare il nostro processo da una fase inquisitoria ad una squisitamente accusatoria ed anglosassone, caratterizzata dall'oralità come momento fondamentale dello stesso: la riforma dunque andrebbe completata ed ampliata anche a seguito di un conflitto lacerante della magistratura che nelle sue forme organizzate ha sempre rifiutato quel cambiamento.

Tutte le modifiche possibili, però, partono sempre da un assunto che sta alla base del discorso e senza la risoluzione del quale non si potrà mai iniziare un dibattito veramente concreto sulla giustizia in Italia: il rapporto tra magistratura e politica e il conseguente stato di inferiorità che quest'ultima ha assunto (per sue esclusive responsabilità) rispetto alla prima. Secondo la regola spesso verificata per cui in politica non esistono spazi vuoti e che se lasciati momentaneamente liberi questi vengono immediatamente riempiti da altre forze spesso non deputate a quel ruolo, la giustizia nel nostro Paese ha subito lo stessa sorte. Nel corso degli anni, una classe politica spesso incapace di fare scelte coraggiose ha delegato alla magistratura la risoluzione dei principali problemi del Paese attraverso una legislazione emergenziale che ha portato solo sfaceli: prima è stata la volta del fenomeno del terrorismo organizzato, poi si è passati alla criminalità organizzata di tipo mafioso, passando per Tangentopoli, che ha fatto scoppiare il problema in tutta la sua drammaticità. In ogni situazione citata la classe dirigente che via via si è susseguita al potere non si è mai curata di riflettere sul fatto che delegare eccessivamente certe funzioni al corpo giudiziario, poteva comportare un rischio serio in termini di successiva gestione di quei fenomeni.

Troppe volte il dialogo tra legislatore e magistrati (non solo utile ma addirittura necessario in una democrazia matura) sui temi della giustizia si è trasformato in una soggezione della classe dirigente. Ecco allora che troppo spesso quelle riforme di cui il Paese aveva bisogno, non sono mai state fatte e non per l’invasione della magistratura bensì per la debolezza della politica, troppo spaventata dal provocare le reazioni delle toghe. Ora Silvio Berlusconi ha l’ennesima possibilità; si tratta solo di vedere come giocherà le sue carte e se veramente ha deciso di dare una svolta sostanziale al sistema giustizia. Solo il tempo può dare una risposta; l’unico auspicio è che non si debba ancora assistere a riforme tampone ed ai timori che troppe volte hanno fermato lo sviluppo del nostro Paese. Finito il tempo dei veti, spazio a quello delle azioni.


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