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La riforma della giustizia parte dalla Costituzione
di ENRICO GAGLIARDI

[17 apr 08] La campagna elettorale si è conclusa ma soprattutto le elezioni politiche hanno consegnato al Paese una maggioranza solida, in grado di imprimere una svolta liberale e riformatrice, svolta di cui questo Paese ha dannatamente bisogno. Se il passato governo di Romano Prodi, appeso com’era alla risicatissima maggioranza in Senato, si è contraddistinto nel corso di due anni per un monocameralismo di fatto e dunque per una paralisi istituzionale, l’attuale maggioranza, quella uscita dalle urne il 14 aprile, in tal senso non può avere scusanti: lo scarto con il Pd è tale da poter agire immediatamente e senza indugi. Sotto con le riforme dunque, a cominciare proprio dalla giustizia; come sovente si usa dire in questi casi, il problema è alla fonte intesa come Costituzione da cui sarebbe necessario partire per estirpare alla radice le storture ordinamentali. Un cambiamento del genere però, per essere veramente ragionato e strutturale dovrebbe necessariamente essere attuato con equilibrio partendo da ciò che di buono già c’è nella nostra Carta Fondamentale, sfruttando quei punti come una bussola da seguire per orientarsi in una materia che necessariamente risulta complessa e magmatica. Ferma restando dunque la parte relativa ai diritti fondamentali in tema di difesa e garantismo sostanziale (vedi art. 24 e 27), scritti praticamente in maniera perfetta, il primo passo potrebbe (o meglio, dovrebbe) caratterizzarsi nella modifica di quell’ipocrisia giuridica generalmente conosciuta come “obbligatorietà dell’azione penale” sancita dall’art. 112 della Costituzione, disposizione abbondantemente disattesa nella stragrande maggioranza delle procure della Repubblica italiane. Il fallimento di un tale meccanismo non si verifica, almeno non sempre, a causa della negligenza o della malafede dei pubblici ministeri, quanto per la quantità mastodontica di pratiche da istruire che intasano la nostra giustizia; il singolo magistrato insomma, trovandosi davanti ad una siffatta mole di lavoro non può far altro che operare una scelta, prediligendo determinati “casi” piuttosto che altri; spesso questa scelta viene fatta secondo precisi ragionamenti di politica giudiziaria, optando per alcune tipologie di reato che variano da procura a procura.

Come un sistema del genere sia affetto da una patologia grave è fin troppo evidente. Intimamente legato al problema dell’obbligatorietà dell’azione penale, in funzione che potrebbe definirsi più generale, vi è la questione legata al ruolo ed ai poteri che la nostra Carta Fondamentale attribuisce alla magistratura nel suo complesso. Da una lettura organica dell’intera Costituzione balza subito agli occhi un dato: l’intero testo e l’intera struttura costituzionale si caratterizza per il tentativo costante di bilanciare tutti i poteri dello Stato; in altri termini, per ogni funzione attribuita ad un organo automaticamente ne viene consegnata una opposta e contraria ad un altro per bilanciare la precedente: un sistema di pesi e contrappesi che però sembra venir meno per la magistratura. A dirla tutta è previsto un organo di autocontrollo dei giudici, il Csm, composto da membri eletti da diverse categorie, compresa quella politica nella sua veste parlamentare; purtroppo però la prassi istituzionale e la storia recente hanno dimostrato come un meccanismo del genere non abbia impedito la formazione di vere e proprie correnti all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura che, lottizzando di fatto l’organo, hanno inciso, e non senza conseguenze di natura costituzionale, nella vita politica italiana, creando una categoria in grado di autoassolversi di continuo pur in presenza di macroscopici errori giudiziari dovuti a imperizia o negligenza. A fronte dell’immunità di cui godono i giudici come categoria, il ministro della Giustizia non possiede, fatto salvo il potere ispettivo (che non ha impedito peraltro a Filippo Mancuso di essere sfiduciato individualmente semplicemente per aver fatto ricorso a tale prerogativa), nessuna possibilità di intervento concreto in ordine all’azione dei magistrati. 

Purtroppo in Italia non si può nemmeno iniziare un discorso del genere senza tirarsi addosso l’ira funesta e gli isterismi di chi vede in questo modo (attraverso cioè maggiori poteri al Guardasigilli) lesa l’indipendenza della funzione giudiziaria; spesso si dimentica o più probabilmente si ignora come questo problema fosse già ben presente in sede di costituente tanto che alcuni Padri Fondatori, tra questi Piero Calamandrei, avevano proposto un controllo più stringente da parte della politica attraverso l’istituzione di un procuratore generale commissario della Giustizia, titolare dell’azione disciplinare nominato dal Presidente della Repubblica e partecipe del Consiglio dei ministri. Chi oggi si straccia le vesti al solo sentir parlare di maggiori facoltà al governo in questo ambito dimostra una miopia istituzionale notevole o peggio un conservatorismo ideologico teso a difendere un corporativismo acquisito: non si attenta all’indipendenza della magistratura se si richiedono maggiori contrappesi istituzionali per bilanciare un potere che negli ultimi anni ha quasi dettato le regole del gioco e l’agenda politica.

Una riforma costituzionale per essere completa dovrebbe però passare anche attraverso altri due elementi fondamentali: la separazione delle carriere e la riforma dell’art. 111 della Costituzione. Per quello che riguarda il primo aspetto giova ricordare come solo nel nostro Paese, tra quelli democratici, non esista una netta separazione tra le carriere di pm e giudice ed il motivo è facilmente intuibile: l’impostazione mentale e metodologica di un magistrato requirente è spesso diametralmente opposta a quella di uno giudicante compreso il suo rapportarsi nei confronti del soggetto via, via imputato. Quale garanzia può avere una persona indagata se l’uomo che la sta giudicando fino a poco prima aveva rappresentato l’accusa in un altro processo? Purtroppo i magistrati rifiutano la separazione delle carriere perché in molti casi non accettano di considerarsi “parte” di un processo, come la difesa, evitando di metabolizzare un’impostazione accusatoria del processo penale che invece nei Paesi anglosassoni (da questo punto di vista vero e proprio baluardo garantista) è da secoli la regola. Silvio Berlusconi ha annunciato nella prima conferenza stampa da nuovo Presidente del Consiglio che metterà mano al problema risolvendolo. C’è da auspicare che sia la volta buona.

Qualcosa di liberale il passato governo in tema di giustizia comunque l’aveva fatto: l’abolizione dell’appello del pubblico ministero nei confronti delle sentenze di assoluzione. Purtroppo, come era prevedibile, la Consulta ha bocciato la norma perché chiaramente contraria al disposto dell’art. 111 della nostra Costituzione il quale stabilisce solennemente la parità tra accusa e difesa nel giusto processo regolato dalla legge. La nuova maggioranza dovrebbe riprendere in mano la materia partendo proprio da questa disposizione, plasmandola in modo tale da renderla compatibile ad una norma che prevedesse l’inappellabilità delle sentenze da parte dell’accusa. Una legge del genere risponderebbe ad esigenze autenticamente liberali già presenti in altri ordinamenti giuridici occidentali (per esempio gli Stati Uniti): per quale motivo infatti, dovrebbe essere concesso ad un pubblico mistero dimostrare la colpevolezza di un soggetto in secondo grado quando già un altro magistrato collega non ci è riuscito in primo? La bussola deve sempre essere la presunzione di non colpevolezza e non l’inversione dell’onere della prova a carico dell’imputato come certi magistrati vorrebbero. Queste sono solo alcuni correttivi a livello costituzionale da cui partire per una seria riforma della giustizia: allo stato dei fatti la modifica però sembra davvero di difficile attuazione ma la risoluzione del problema alla radice è condizione essenziale per una riforma a livello di legislazione ordinaria che in caso contrario rischia di restare solo lettera morta.


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