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La Via del Dalai Lama è un alibi per l’Occidente
di FEDERICO PUNZI

[09 apr 08] Il più rilevante elemento di novità politica riscontrabile nella crisi tibetana iniziata il 10 marzo scorso è senz'altro lo scollamento tra il movimento di protesta montato all’interno del Tibet e la sua leadership spirituale e politica, il Dalai Lama, che è fuori dal Tibet e che siamo portati a identificare con la causa tibetana. Le manifestazioni di monaci e civili, a volte rabbiose e violente, rappresentano una risposta, sia pure discutibile, a un interrogativo che dovremmo porci seriamente anche noi in Occidente e che si è posto, su Ideazione (31 marzo 2008), Enzo Reale. Quale risultato concreto, quale miglioramento reale nelle vite di milioni di tibetani ha prodotto mezzo secolo della politica del Dalai Lama? In queste settimane dal Tibet è giunta una risposta chiara: nessun risultato. La frustrazione ha indotto i tibetani a una ribellione la cui violenza rappresenta una contestazione implicita, alla linea nonviolenta e dialogante del Dalai Lama. Da qui in avanti potremmo sempre più avere a che fare con “la storia di due Tibet”: uno oppresso e disperato, cui sembra non essere concesso di discostarsi dalla moderazione e dalla nonviolenza dell'altro, quello ormai fissato nell'immaginario collettivo. C’è il rischio infatti che i tibetani rimangano prigionieri dell'immagine che della loro causa ha diffuso nel mondo il Dalai Lama. Se a Sua Santità va certamente il merito di aver conquistato l'apprezzamento e la solidarietà sia dei governi che delle opinioni pubbliche occidentali, questa simpatia potrebbe rivelarsi troppo condizionata a quell’immagine e ad una sola linea politica, che finora non ha prodotto risultati.

Se i tibetani dovessero decidere di mutare strategia di lotta, continuerebbero a ricevere lo stesso sostegno di oggi da parte del mondo occidentale? Un vero e proprio dilemma: da una parte non si può certo dire che la simpatia abbia spinto i governi occidentali a interventi e pressioni tali da smuovere l’intransigenza di Pechino e consentire al Tibet di godere di quella autonomia che nella costituzione cinese sarebbe prevista; dall’altra, un mutamento di rotta negli obiettivi e nei metodi renderebbe ancor più difficile per l’Occidente sostenere apertamente i tibetani. Nel frattempo, nuove personalità politiche si affacciano alla ribalta dei media e vengono in visita nelle capitali europee a rappresentare la causa tibetana. Thewang Rigzin e Dondup Landhar, leader del Congresso dei giovani tibetani, già su posizioni radicali, e Karma Chophel, presidente del Parlamento in esilio, che invece per ora non si discosta dalla linea del Dalai Lama (autonomia e nonviolenza), ma prende atto che “non ha dato i risultati sperati” e non esclude affatto che “per il popolo tibetano sia arrivato il momento di cambiare registro”, dicendosi convinto che, se i tibetani vorranno un cambio di strategia, il Dalai Lama “ne prenderà atto e sosterrà le loro istanze”.

Il Dalai Lama deve inoltre affrontare il grave problema della sua successione. Tenzin Gyatso da sempre incarna la causa tibetana agli occhi del mondo intero. Da anni le autorità cinesi fingono di non credere che accetti il dialogo, per il semplice motivo che non hanno alcuna intenzione di dialogare. La strategia di Pechino nei confronti del Dalai Lama è un’opera di delegittimazione: all'interno del Tibet, non aprendo né al dialogo né a concessioni che possano accreditare il suo approccio; e all'esterno, come abbiamo potuto constatare in queste settimane con la campagna mediatica per attribuire al Dalai Lama e alla sua “cricca” la responsabilità degli scontri in Tibet. Il tempo gioca a favore di Pechino: alla sua morte nessun successore potrà godere dello stesso prestigio internazionale e ci vorrebbero comunque una ventina d’anni prima che il nuovo Dalai Lama abbia piena consapevolezza del suo ruolo. Inoltre, c’è sempre la possibilità che Pechino riesca a nominare un successore di sua fiducia o che il popolo tibetano nel frattempo sia già quasi scomparso dal punto di vista demografico e culturale. Tenzin Gyatso è consapevole del problema e sembra che stia valutando di indicare prima della sua morte un successore già adulto, contravvenendo alla tradizione del buddismo tibetano.

Ma neanche Sua Santità ha il dono della verità. E’ probabile che l’obiettivo dell’indipendenza e i metodi di lotta violenti non giovino ai tibetani, ma non è detto che quella indicata dal Dalai Lama sia automaticamente la via migliore possibile. Eppure, ben poco laicamente in Occidente identifichiamo la causa tibetana con una guida spirituale “la cui santità non ammette critiche sul piano politico”, attribuendogli un’autorità quasi teocratica. Politici, opinionisti, attivisti, pendono dalle sue labbra: boicottare le Olimpiadi? Dev’essere proprio sbagliato, se lo dice persino il Dalai Lama. La “Via di mezzo” da lui indicata è ritenuta giusta perché ragionevole, dialogante e nonviolenta, ma rischia di diventare soprattutto un comodo alibi per le nostre coscienze, perché poco impegnativa politicamente. Occorre fare attenzione perché la giusta preoccupazione di non adottare misure che possano scavalcare le posizioni moderate del Dalai Lama non divenga un ipocrita paravento che ci solleva dallo sforzo intellettuale di immaginare politiche più efficaci nei confronti della Cina. Ma quali?

La nonviolenza non va mitizzata: Gandhi stesso riteneva la violenza un male minore rispetto “alla codardia o alla debolezza”. Poi, perché non tutti i popoli oppressi hanno a che fare con un governatore britannico. Tuttavia, il ricorso alla violenza implica non solo uno scrupolo di carattere morale, ma anche e soprattutto pragmatico. Occorre, cioè, che ci sia qualche possibilità concreta che quella forza si dimostri effettivamente liberatrice. Se il popolo tibetano avesse qualche chance di liberarsi con la forza dal giogo cinese, dovremmo senz’altro essere disposti a sostenere tale soluzione. Ma quali speranze avrebbe di uscire vittorioso da un conflitto con le armate cinesi? E’ la risposta a questa domanda che rende ancora solida la posizione del Dalai Lama. Anche se improduttiva e fallimentare, ad oggi, appare drammaticamente irreversibile e senza alternative. Dunque, più che su una svolta “radicale” da parte dei tibetani, faremmo meglio a concentrarci su una diversa politica cinese da parte dell'Occidente. L’elemento più pericoloso della linea del Dalai Lama non sta tanto nell’obiettivo riduttivo o nei metodi rinunciatari, ma nell’alibi che rischia di fornire all’ignavia e alla pusillanimità dell’Occidente. Poiché non vedremo un Tibet libero prima di una Cina libera, democratica e federale, occorre spingere Pechino verso questa direzione. Anche ammettendo che la politica del Dalai Lama sia la più efficace e opportuna per i tibetani, potrebbe non esserlo per l’Occidente, cui ancor più che l’autonomia del Tibet dovrebbe interessare l’evoluzione democratica della Cina. Se il modello di capitalismo autoritario e nazionalista che Pechino sta perseguendo avrà successo, costituirà una minaccia per quello democratico. Dunque, porre i progressi nel rispetto dei diritti umani e graduali cambiamenti politici come presupposti anche dei nostri rapporti con la Cina non risponde solo a un’esigenza di carattere morale, ma a una necessità anche per gli interessi, e in primo luogo per la sicurezza, dell’Occidente democratico.


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