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Recessione, l'Europa sceglie di non cambiare rotta
di LORENZO BETTONI

[08 apr 08] Il 12 e 13 aprile prossimi, in occasione dello spring meeting di Washington, sarà presentata ufficialmente l’ultima edizione del “World Economic Outlook”. Gli scenari delineati dal Fondo Monetario Internazionale sono già noti. Tagliate tutte le stime di crescita per l’anno in corso (e per il 2009): dello 0,2 per cento quella dell’economia mondiale, ora al 4,2; mezzo punto percentuale per Eurolandia, il che schiaccia la crescita sull’1,6 per cento. Oltreoceano, dove la crisi dei mutui subprime ha sferzato duramente i mercati finanziari, l’economia, sostiene il Fondo Monetario, “resta molto debole, certamente vicina a una possibile recessione”, aggiungendo che i rischi in questo senso sono “chiaramente aumentati”. Il pil Usa nel 2008 dovrebbe crescere dell'1,5 per cento. Anche qui una sforbiciata dello 0,4. Quello italiano crescerà solo dello 0,6 per cento. I numeri prodotti dal Fondo Monetario ci confermano che sarà un anno difficile e che sull’economia globale aleggia lo spettro della recessione. Il re è nudo. Se la difficile congiuntura accomuna entrambe le sponde dell’Atlantico, la strategia seguita dal custode della moneta e della crescita economica americana, Ben Bernanke, per governare l’economia a stelle e strisce fuori dalla bonaccia è profondamente diversa da quella scelta dai suoi colleghi in Europa dove – sottolinea il presidente della Banca Centrale, Jean Claude Trichet – “l’economia resiste, ma deve fare fronte a un clima degradato e ad una situazione sempre più difficile”.

Nel giro di pochi giorni Bernanke, dal timone della Federal Reserve, ha messo in atto tre manovre di emergenza, tre strambate decise: i tassi sui Fed funds sono scesi al 2,25 per cento, il tasso di sconto al 2,50. L’Europa dell’euro almeno finora non ha seguito. Il tasso principale nell'Eurozona è fermo al 4 per cento e il divario fra il costo del denaro negli Usa e quello in Eurolandia è salito a 1,75 punti. Nella ideale regata che si gioca tra le due sponde dell’Oceano il successore di Alan Greenspan ed i responsabili della Banca centrale europea hanno scelto dunque tattiche diverse per questo “match race”. La cosa non stupisce poi molto: la Banca centrale europea, infatti, ha sempre cercato di evitare accomodamenti automatici alle decisioni della Fed. Le ragioni delle differenze di impostazione nella rotta seguita dai due strateghi Bernanke e Trichet sono tuttavia più profonde e vanno ricondotte non solo agli obiettivi che Fed e Bce perseguono, ma anche ad alcune condizioni che distinguono l’economia americana da quella europea. La comprensione di queste ragioni non è di poco conto, poiché il grado di integrazione tra i mercati è oggi così elevato che le manovre sui tassi poste in essere dalle banche centrali determinano molteplici ripercussioni: sui movimenti dei capitali da e verso i due mercati; sulle variazioni del tasso di cambio euro/dollaro; sulla politica di bilancio americana e su quella dei Paesi europei.

In primo luogo la Bce si colloca, sotto il profilo della identità istituzionale, agli antipodi della Federal Reserve. L’istituzione guidata da Trichet è un epigono della banca centrale tedesca ed eredita da quest’ultima il gene radical-monetarista. Il controllo dell’inflazione attraverso la politica monetaria diviene per la Bce l’unico cammino percorribile, escludendo ogni compromesso tra questa missione e quella di favorire, in base ad un ragionevole quanto paradossale compromesso, la crescita dell’economia. Nell’Eurotower la lotta è contro un fantasma, l’inflazione, difficile da scovare perché celato dal velo di  una mancata piena comprensione che nel Vecchio Continente non è in atto esclusivamente una crescita generalizzata dei prezzi, ma anche un cambiamento dei prezzi relativi che sta rimodulando la struttura dei vantaggi competitivi e della divisione internazionale del lavoro. In Europa la diminuzione dei tassi, quando necessaria, è stata più cadenzata e volta a mantenere una differenza positiva con quelli americani. Una strategia questa che ha portato al rafforzamento dell’euro sul dollaro, ad una perdita di competitività delle esportazioni europee, che certamente non fornisce slancio, oggi come in passato, al tasso di crescita del prodotto interno lordo. La crescita lenta impedisce all’Europa di tenere il passo con le proprie aspirazioni in tema di spesa sociale e, allo stesso tempo, di sviluppare la competizione, sul terreno della tecnologia e dell’innovazione, con l’economia americana e con quelle asiatiche, Cina ed India in testa.

Diversamente da Trichet, Bernanke si occupa di moneta senza trascurare l’interazione tra le variabili reali e finanziarie. L’inflazione è sicuramente un pericolo da evitare navigando lungo la rotta tracciata, prima di lui, della grande tradizione teorica del central banking. Ma, negli anni dedicati alla ricerca, Bernanke ha maturato anche la convinzione che sia più facile rallentare l’inflazione che spingere l’economia fuori dal ristagno indotto da una crisi profonda. La politica monetaria avrebbe quindi effetti asimmetrici: più efficace quando deve rallentare l’inflazione, meno quando la si usi per trainare fuori dallo stallo una economia asfittica. Le diverse convinzioni radicate a Francoforte e Washington si sommano, componendo l’attuale quadro complessivo, ad una ulteriore circostanza critica in questo “match race”: far virare l’economia Usa è più agevole. Essa si presenta compatta nelle regole di funzionamento del sistema e dei mercati. Per l’economia europea non è così. Prevalgono assetti regolamentari e legislativi, frutto della sua storia recente e passata, in cui gli Stati hanno svolto un ruolo diretto nella produzione e nei servizi attraverso le imprese pubbliche, e i cui connotati di minore concorrenza e minore flessibilità, sommati, hanno prodotto maggiori costi e una crescita più lenta.

Se i tassi di interesse europei fossero allineati a quelli americani il costo del denaro più basso andrebbe a vantaggio di tutti i prenditori di credito: imprese, famiglie e Stato. Le imprese pagherebbero meno il ricorso alle banche e ai mercati, così come le famiglie accrescerebbero la loro domanda di beni durevoli. Gli Stati pagherebbero meno il loro debito. Per l’Italia ci sarebbe un ulteriore beneficio, visto l’elevato stock di debito pubblico a cui deve fare fronte pagandone gli interessi. Se una tale riduzione provocherebbe una fiammata inflattiva significativa, al momento, non è dato sapere. Stando alle parole usate da Trichet la scorsa settimana durante l'audizione alla commissione economico finanziaria del Parlamento europeo a Bruxelles, il rischio è concreto. “Il periodo di alta inflazione - dice Trichet - durerà più di quanto ci aspettavamo”. La scelta di non virare è fatta, sperando di non finire sul lato senza vento del campo di gara rappresentato dal mercato globale perché, in questo caso, la risposta sarebbe la stessa che fu data alla regina Vittoria alla fine della regata “delle 100 ghinee” quando, saputo della vittoria dell’America, chiese quale barca fosse giunta seconda: “There is no second, your Majesty”. Non c'è il secondo.

Riferimenti
Sito dell’Ufficio Italiano dei Cambi

Sito ufficiale del Fondo Monetario Internazionale

 


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