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Mille Jesse Owens invadano Pechino
di DOMENICO NASO

[07 apr 08] Anche dopo le contestazioni e gli scontri che ieri hanno animato una fredda e innevata Londra, il viaggio della torcia olimpica continua imperterrito, forte del rifiuto da parte dei leader occidentali (eccezion fatta per Nicolas Sarkozy) di prendere in considerazione l’ipotesi del boicottaggio. E mentre Jacques Rogge, presidente del Comitato olimpico internazionale, invita Pechino a risolvere pacificamente la situazione tibetana, forse è utile fare un salto indietro nel tempo per cercare possibili altre soluzioni all’impasse olimpica. L’immagine di Jesse Owens, che per primo taglia il traguardo sotto la tribuna d’onore dell’Olympiastadion di Berlino, rimarrà per sempre nella storia dello sport. Non soltanto perché le prestazioni su pista dell’afroamericano rappresentano un livello d’eccellenza difficilmente immaginabile a quei tempi, ma soprattutto perché al centro di quella tribuna d’onore c’era un uomo in divisa, soliti baffetti, espressione corrucciata. Quell’uomo era Adolf Hitler e si trovava in quello stadio per celebrare la superiorità atletica della razza ariana. Ecco perché, dunque, le imprese di Owens travalicano lo sport e irrompono con forza nella storia del Novecento. Uno smacco così umiliante, davanti agli occhi del mondo, proprio in casa di chi sosteneva (con le terribili conseguenze future che conosciamo) che neri, ebrei, zingari e “razze miste” erano inferiori (nella mente e nel fisico) ai biondi e alti teutonici.

L’Olimpiade del 1936 rimane, anche volendo prescindere da Jesse Owens, una delle macchie indelebili della storia di questa gloriosa manifestazione. Semplicemente perché si andava a festeggiare lo spirito “decoubertiano” (e allora era davvero più diffuso rispetto a oggi) in un Paese schiacciato da una dittatuar terribile, che privava i cittadini delle libertà fondamentali e stava già preparando il folle piano di conquista dell’Europa (nel 1938 la Germania nazista occuperà la regione dei Sudeti, nel 1939 annetterà l’Austria e scatenererà il conflitto mondiale con l’invasione della Polonia). Chissà se qualcuno, all’epoca, si era interrogato sull’opportunità o meno di svolgere quelle Olimpiadi, chissà se qualcuno, nel mondo libero, si sentiva a disagio a sfilare, esultare, gioire, competere, sotto gli occhi di Adolf Hitler. Quello che sappiamo di certo, tuttavia, è che oggi, settantadue anni dopo, il dilemmo si ripropone in tutta la sua difficoltà di soluzione. Pechino 2008: boicottaggio o no? Chiariamo, a scanso di equivoci, che la Cina di oggi (diverso sarebbe parlare della Cina di Mao) non è paragonabile tout court al regime nazista. Non fosse altro perché i freschi e copiosi capitali cinesi irrorano da tempo un Occidente in crisi economica e di identità. Non fosse altro perché viviamo nell’epoca della globalizzazione e della delocalizzazione, con migliaia di aziende occidentali che sbarcano in Cina alla ricerca di maggiore produttività a prezzi stracciati.

Ma il problema di fondo rimane: la Cina non è un Paese democratico. Partito unico, pensiero unico, completa mancanza di libertà fondamentali come garanzie sindacali, tutela del lavoro di minori e donne, assenza di libertà religiosa, e potremmo continuare ancora per molto. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è di questi giorni: la terribile repressione nel sangue delle manifestazioni in Tibet. L’idea del boicottaggio delle Olimpiadi (che verranno inaugurate l’8 agosto) era già circolata mesi fa per altri e non meno gravi motivi, ma la situazione tibetana ha dato più forza a una tendenza che era (e forse è ancora) minoritaria. Il mondo libero, o almeno di esso che conta, crede che boicottare le Olimpiadi non serva a nulla, che lo sport non c’entra con la politica (quando conviene, però, diventa strumento sociale, mezzo di fratellanza, e così via), che la migliore manifestazione di dissenso sarebbe partecipare alle Olimpiadi e mettere sotto i riflettori del mondo intero i problemi cinesi. Quest’ultima tesi è senza dubbio la più condivisibile, fermo restando che se in questi mesi Pechino non dimostrerà almeno la buona volontà di risolvere un po’ di questioni aperte, crediamo che il boicottaggio rimanga un’arma da non escludere a priori.

Però la partecipazione con “testimonianza” potrebbe essere un’idea da tenere in considerazione. In mancanza di atleti tibetani o uighuri (altra minoranza vessata nel Turkestan orientale), spetterebbe agli sportivi occidentali manifestare un dissenso fermo e pacifico. I modi della protesta potrebbero essere molteplici: indossare le classi spillette con la scritta “Free Tibet” o “Democracy in China”; sventolare, magari dopo una vittoria epica, di quelle che solo i Giochi Olimpici sanno regalare, la bandiera tibetana, o quella di Taiwan (altra questione spinosissima che la comunità internazionale non sa affrontare). Sarebbero gesti semplici, ripresi da migliaia di telecamere e seguiti in diretta da miliardi di persone. Gesti pacifici, dimostrativi, ma ricchi di significato. E gli atleti non dovrebbero temere ritorsioni da parte delle autorità cinesi: nemmeno un regime sfrontato come quello di Pechino può permettersi colpi di mano del genere durante le Olimpiadi.

Non ci sarà un Jesse Owens tibetano a gioire per l’oro sotto la tribuna di Hu Jintao, purtroppo. Ma ci potrebbero essere decine di atleti occidentali pronti a sostenere la causa della libertà non solo di uighuri o tibetani, ma anche (e soprattutto) di un miliardo e mezzo di cinesi che vivono ancora senza diritti e libertà. Se proprio il boicottaggio non può venir preso in considerazione da un Occidente pavido e interessato, ci pensino almeno gli atleti a dimostrare ancora una volta che lo sport può valere più di mille summit politici. Se così sarà, si potrebbe pensare di sostituire l’Onu con il Cio. Almeno ci divertiremmo di più.


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