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Turchia, Erdogan rischia la messa al bando
di GIUSEPPE MANCINI

[01 apr 08] Abdurrahman Yalçınkaya è il procuratore generale della Suprema corte d’appello della Repubblica turca. Il 14 marzo, inaspettatamente, ha depositato presso la Corte costituzionale di Ankara un formale atto d’accusa contro il Partito della giustizia e dello sviluppo, oggi al potere: chiedendo la messa al bando del partito e l’esclusione dall’attività politica – per 5 anni – di 71 tra i suoi membri più rappresentativi, inclusi il presidente della Repubblica Abdullah Gül e il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan. Ieri, 31 marzo, la Corte costituzionale ha formalmente accettato di pronunciarsi sulla denuncia presentata da Yalçınkaya. I leader dell’Akp sono accusati di aver attentato alla natura secolare dello Stato turco: ad esempio, attraverso la riforma costituzionale che rende di nuovo possibile – per le studentesse – indossare il velo islamico all’università (ma le 160 pagine di accuse contengono molto altro ancora). Un atto inaspettato, ma non inedito: visto che nel 1998 e nel 2001 sono stati messi al bando, in successione, i partiti islamici progenitori dell’Akp; un atto che, stavolta però, assume le caratteristiche di un vero e proprio colpo di Stato e rischia di minare le basi stesse della democrazia turca.

Il partito di Erdoğan gode infatti di un fortissimo consenso, testimoniato dal 47 per cento di suffragi conquistati nelle elezioni del luglio 2007 e da una maggioranza parlamentare che rasenta i due terzi dei membri, oltre che da una consolidata popolarità personale – del premier come del presidente Gül – e da un unanime apprezzamento internazionale. Insomma, se lo scontro sembra nascere da un’incompatibilità manifesta tra il secolarismo su cui si basa la Repubblica voluta da Atatürk e l’ispirazione islamica dell’Akp e dei suoi aderenti, nei fatti e più in profondità emerge un altro e più radicale conflitto: quello tra lo Stato autocratico in cui i militari e le élites kemaliste godono ancora di ingenti privilegi politici ed economici da una parte, e il riformismo democratico di Erdoğan e Gül che ha reso la Turchia più moderna, più prospera e più vicina all’Europa dall’altra. L’Akp ha largamente realizzato il programma elettorale ed ha avuto il grandissimo merito, sin dalla sua prima conquista della maggioranza parlamentare nel novembre 2002, di promuovere l’ascesa delle classi medie rimaste ai margini della scena economica e politica e di assumere posizioni moderate e realiste nei confronti della minoranza curda. Le riforme dell’Akp, nei fatti, stanno spazzando via il vecchio sistema di potere fondato sul ruolo proprio dell’esercito e dell’alta burocrazia non elettiva di custodi della laicità – un ruolo ampiamente strumentalizzato e abusato, un ruolo soprattutto fortemente antidemocratico. Perché è assurdo, per un Paese che vuole diventare parte a pieno titolo dell’Unione europea, che le due più alte cariche dello Stato possano venire destituite a causa non di attività criminali ma di qualche discorso pubblico e di una riforma costituzionale.

Del resto, già l’anno scorso ci fu il tentativo da parte della Corte costituzionale, attraverso escamotages legalistici, di bloccare l’elezione di Gül da parte del Parlamento. La risposta di Erdoğan fu coraggiosa e vincente: nuove elezioni, incremento dei voti per l’Akp (+ 13 per cento), ampia maggioranza e Gül presidente. La Corte costituzionale è tornata protagonista: ma i tempi per la sentenza saranno lunghi (almeno un anno) e per accogliere l’atto di accusa di Yalçınkaya occorrerebbe comunque il voto a favore di 8 giudici su 11. Il primo ministro turco, però, potrebbe decidere di giocare d’anticipo: cambiando attraverso una riforma costituzionale i meccanismi che possono portare allo scioglimento di un partito e alla sospensione dei suoi membri dall’attività politica. Una riforma da sottoporre a referendum: perché in una democrazia è il popolo a essere sovrano e non possono essere i giudici a decidere – piuttosto arbitrariamente – chi deve governare.


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