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ITALIANI AL VOTO: CONTA ANCORA L'APPARTENENZA?
Come cambia il voto degli italiani? Un'indagine fotografa una categoria inedita nel nostro Paese: quella degli indecisi che scelgono in base ai programmi.
di ANTONIO FUNICIELLO

[27 mar 08] Non ha suscitato l’interesse che meritava una recente indagine del Censis su “Abitudini e sorprese nel voto degli italiani”. Partendo dall’interrogativo campale Chi e cosa deciderà le elezioni del 2008?, si definisce una mappa dei comportamenti dei cittadini sotto elezioni. E proprio la possibilità di riferirsi ad analoghi rilevamenti effettuati nel ’96, nel 2001 e nel 2006, consente al Censis di approfondire l’indagine, anche allo scopo di comprendere come sono cambiati i comportamenti elettorali e politici degli italiani. Anzitutto l’indagine avverte che, dalle politiche del 2001, un italiano su tre decide come votare durante la campagna elettorale. I gruppi sociali maggiormente inclini a non entrare con posizioni precostituite nel tourbillon dello scontro propagandistico e a decriptare i messaggi dei politici sono i giovani, le donne e i residenti al nord. Per i primi, il richiamo alla passione politica è la corda principale sui cui far suonare i jingles elettorali; per gli altri, la lettura ragionata dei programmi ha una rilevanza preminente. Più in generale, nelle politiche del 2006, gli “indecisi” si sono distinti in due categorie: i “non orientati”, che alla fine, nel 2006 hanno scelto in numero maggiore il centrodestra, e i “fuggitivi” (i transfughi da un polo all’altro), tra i quali si è registrato il comportamento inverso. In questo caso ha evidentemente giocato un giudizio negativo degli elettori di centrodestra sull’operato del secondo governo Berlusconi.

Quella sui cambi di casacca è, in effetti, la parte più interessante dell’indagine del Censis, soprattutto se rapportata alla corsa verso il 13 e il 14 aprile. Nei dodici anni presi in esame (1996-2008), si è assistito ad uno scongelamento progressivo dell’intenzione di voto: da un rigido legame all’identità di riferimento a un più pragmatico e utilitaristico comportamento elettorale. Tuttavia questo scongelamento non ha prodotto un passaggio considerevole da un fronte politico all’altro. Il flusso elettorale più importante è avvenuto nel 2001, allorché 16 elettori su 100 della Casa delle Libertà erano ex elettori dell’Ulivo del ‘96. Il record è probabilmente spiegato dal disamore di costoro per i due governi D’Alema e per il governo Amato. Altro dato assai significativo che registra, in questo senso, l’indagine Censis è il funzionamento a rovescio della nota legge dell’incumbent, per cui un governo uscente avente alle spalle una sola legislatura viene tendenzialmente riconfermato: da quando esiste il bipolarismo, in Italia non è mai successo. Comunque, eccezion fatta per il 2001, lo scongelamento dell’intenzione di voto è ancora parecchio “freddo”, assai sottodimensionato se paragonato a quello che da tempo impera nelle campagne elettorali nelle democrazie avanzate d’Occidente. Comprenderne il perché soccorre oggi il tentativo di ipotizzare quale rilevanza il freddo scongelamento avrà sull’esito del voto di aprile.

Il problema dell’Italia post-ideologica è che fatica a diventare anti-ideologica. Il Censis registra che gli elettori che scelgono chi votare “per comunanza di valori e ideali”, quelli che potremmo definire gli “idealisti”, rappresentano più o meno la metà del corpo elettorale dei due schieramenti così come concepiti nel 2006: 46 per cento centrodestra, 53 per cento centrosinistra. E’ evidente – ma questa evidenza non è presa “colpevolmente” in esame dal Censis – che i due schieramenti sono stati portatori di valori e ideali, almeno quanto Erode abbia avuto in passato simpatia per i bimbi. Il voto ideale è stato in realtà declinato tutto in negativo: contro Berlusconi pericolo per la democrazia da un lato, contro i comunisti pericolo per la democrazia dall’altro. Il fattore unificante delle coalizioni fino al 2006, il loro minimo comune denominatore è stato l’avversione al nemico. Un comune denominatore, quindi, esterno al posizionamento valoriale e all’orientamento ideale. Da qui l’imbarbarimento del nostro bipolarismo, per cui su un fronte Forza Italia ha visto crescere la quota di elettori che potremmo definire “idealisti” dal 30 per cento del ’96 al 40 per cento del 2006, sull’altro i Democratici di sinistra sono passati dal 58 per cento al 64 per cento. Numeri esorbitanti.

Oggi questi due partiti non ci sono più: il secondo sicuramente, confluito com’è nel Partito democratico; il primo lo si auspica fortemente, dacché al momento la formazione appare ancora allo stato embrionale, quello del Popolo della Libertà. Si sono, comunque, entrambi resi protagonisti (Fi con An e i Ds con la Margherita) di un’opera di semplificazione e riduzione identitaria che dovrebbe portarli ad essere non solo post-ideologici – che non basta – ma anche anti-ideologici. In modo da de-ideologizzare l’elettorato di riferimento e avere una capacità attrattiva nei confronti dell’elettorato avverso molto più considerevole. In fondo si tratta di aumentare la platea degli “indecisi” per farne la maggioranza silenziosa che più razionalmente possa dare il timone del Paese a chi pare meritarselo, in virtù della propria credibilità e del proprio progetto di futuro. Viste le performances delle coalizioni fondate sul voto degli irrazionali “idealisti”, un investimento sui più razionali “indecisi” pare essere il vero fattore di svolta e di maturità dell’Italia. Non pare sacrilego denunciare che anche uno dei più diffusi orgogli nazionali, l’alta affluenza alle urne, è un retaggio tardo-ideologico di cui sbarazzarsi al più presto. Il numero dei votanti nelle elezioni del Parlamento è, infatti, già in costante decrescita dalle politiche del 1976. Fenomeno naturalissimo nelle moderne società del benessere con trend invertito solo due anni fa dalla straordinaria rimonta di Silvio Berlusconi ai danni di Romano Prodi e della sua vittoria di Pirro. I partiti ideologici hanno fatto del richiamo all’imperativo civile dell’espressione di voto una specie di ossessione più demagogica che democratica. Il diritto di voto è, appunto un “diritto” e come tale è concepito dalla nostra Costituzione, prima d’essere considerato, ma solo nel suo esercizio, anche un “dovere civico” (vedi articolo 48). A conti fatti, anche nel numero dei partecipanti al voto politico, vale di più la anti-ideologica qualità che la ideologicissima quantità.


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