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[26 mar 08] Carlo Buldrini ha vissuto in India per trent'anni, ha scritto libri che a Nuova Delhi sono dei best-seller ed è stato addetto reggente dell’Istituto italiano di cultura di Nuova Delhi. Ma quello che più interessa della biografia di questo scrittore, che di recente ha pubblicato per i tipi di Lindau il volume “Lontano dal Tibet”, è la profonda conoscenza delle cultura tibetana e l'amicizia con Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama. Prima di recarsi a Oslo per ricevere il Nobel per la Pace, è a Buldrini che Gyatso rilascia in esclusiva una lunga intervista sulle difficoltà che deve affrontare la sua gente. Ed oggi lo scrittore, che ancora si commuove ricordando quei momenti, ci racconta come il Dalai Lama è cambiato rispetto ad allora e come i tibetani vivono una rivolta che sta scuotendo il mondo intero. Una rivolta “importante perché non si limita a Lhasa ma coinvolge anche le province appartenenti al Tibet storico, quelle che oggi sono territorio cinese a tutti gli effetti. Tutti i tibetani, dentro e fuori il Tibet storico - dice Buldrini - sono con il Dalai Lama nel chiedere Bod rangzen, Tibet libero”. E ad ascoltarlo viene voglia di alzare la voce e di intonare anche noi, così lontani dal Tibet, le parole e i canti della protesta e della speranza.
Buldrini partiamo
dalle origini, dalla nascita della rivolta. Perché ha inizio proprio il 10
marzo?
Perché il 10 marzo è l’anniversario dell’insurrezione di Lhasa. Nel 1959 il
Dalai Lama, lo stesso di oggi ma al tempo ventiquattrenne, era nel
Norbulingka, la sua residenza estiva, quando si sparse la voce che se avesse
accettato l’invito di recarsi a una rappresentazione teatrale fattogli
dall’esercito cinese sarebbe stato rapito. Trentamila persone allora
circondano il luogo in cui risiede per proteggerlo e per impedirgli di
spostarsi. La protesta dei tibetani continua fino a degenerare in aperta
rivolta e il 17 marzo l’esercito bombarda il Norbulingka e costringe il
Dalai Lama a fuggire nella notte. Tenzin Gyatso arriverà in India il
3 aprile e da quel momento inizia il suo esilio. Una vera tragedia per i
tibetani, che ogni 10 marzo festeggiano la loro festa nazionale in memoria
di questi fatti nonostante l’occupazione cinese abbia avuto luogo dieci anni
prima, nel 1949-50.
L’occupazione
cinese come cambia la vita dei tibetani?
L’occupazione provocherà, nelle sue prime due fasi - quella della
collettivizzazione e quella delle Rivoluzione Culturale - un milione e
duecentomila morti nelle tre regioni storiche del Tibet, l'U-tsang, il Kham
e l'Amdo. La rivoluzione culturale porta a una completa sinizzazione del
Paese, come dimostra la distruzione dei monasteri: nel 1959 esistevano in
Tibet 6259 monasteri, nel 1976 ne restavano in piedi otto.
Quando il Dalai
Lama parla di genocidio culturale è a questo che si riferisce?
No, la fase che il Dalai Lama definisce “genocidio culturale” è quella
dell’aggressione demografica che inizia nei primi anni Ottanta con Deng
Xiaoping ma era già stata teorizzata da Mao Zedong sul Quotidiano del Popolo
nel 1952. Mao disse allora: “il Tibet è scarsamente popolato, dobbiamo almeno
quintuplicarne la popolazione”. Ma stranamente i cinesi cominciarono poi a
sterilizzare le giovani ragazze nomadi tibetane. Questo implicava che per
quintuplicare la popolazione del Tibet bisognava favorire l’invasione dei
cinesi di etnia Han. Oggi in Tibet vivono otto milioni di cinesi e sei
milioni di tibetani. Lhasa è una città al 70 per cento cinese. Ci sono stato
tre volte per scrivere l’ultimo capitolo del mio libro e ho percorso il
Lingkor, il percorso sacro che i tibetani facevano nei giorni festivi in
segno devozionale. Molte delle vie mantengono il nome originale ma oggi vi
si affacciano negozi, discoteche, karaoke, bar e bordelli. Tutti gestiti da
cinesi. Di recente c’è stata un’accelerazione nell'aggressione demografica
con l’inaugurazione della ferrovia Golmud-Lhasa che porta ogni giorno 4mila
cinesi in Tibet. Di questi, molti sono turisti che tornano da dove sono
venuti, mentre altri si fermano per mettere su alberghi e ristoranti,
attratti dallo sviluppo del turismo e dalla politica di sgravi fiscali
attuata nella regione dal governo centrale.
Il Dalai Lama
chiede autonomia e non indipendenza del Tibet, un punto su cui non tutti i
tibetani sembrano concordare. Perché?
Il Dalai Lama tiene questa posizione perché sa che i rapporti di forza sono
impossibili con la Cina. Sei milioni di tibetani non possono fare molto
contro l’esercito più numeroso del mondo. La Cina ha invaso, la Cina ha
ucciso, la Cina ha massacrato. Il Dalai Lama non è nella posizione di
chiedere l’indipendenza del suo Paese ma dice “la nostra è una lotta non
violenta, la nostra è una lotta per la verità”. E la verità a cui si
riferisce è la verità di Gandhi, quella del “Satyagraha”. Satya in sanscrito
è la verità. Gandhi prima della marcia del sale scrive un famoso documento
in cui dice che il governo britannico ha sfruttato, oppresso e distrutto il
popolo indiano, chiede quindi di rescindere ogni contatto con l’Inghilterra
e chiede il “Purna swaraj”, la completa indipendenza. Il messaggio del Dalai
Lama pur essendo molto mediato si rifà a questo. Il Dalai Lama cerca la
verità e lui sa quale è la verità: è che il Tibet era una nazione
indipendente ed è stata occupata militarmente dalla Cina. Ma dice anche “la
nostra sarà una lotta lunga e a lunga scadenza la verità trionferà”. Per
fare trionfare la verità il Dalai Lama fa la cosa più importante che può
essere fatta in questo momento, mantiene in vita l’identità del Tibet.
Lei conosce bene
Tenzin Gyatso: nel 1989, prima di andare a Oslo a ricevere il Nobel per la
pace, le rilasciò un’intervista in esclusiva. E’ sempre stato su posizioni
così arrendevoli?
No, nell’89 aveva posizioni diverse, come emerge da quella famosa intervista
che ho anche inserito nel mio libro. Ma oggi il Dalai Lama soffre
profondamente e io credo che questi eventi lo segneranno. Ed è su posizioni
così arrendevoli anche perché è stato abbandonato. I Paesi occidentali non
hanno fatto niente per il Tibet. Le Olimpiadi potevano essere un’occasione
straordinaria per far fronte al problema. Prima di concedere i giochi a
Pechino i governi democratici potevano chiedere alla Cina di fare rientrare
il Dalai Lama in Tibet. Ci sarebbe stato tutto il tempo per una mediazione,
per trovare una soluzione, per negoziare una visita anche di poche
settimane.
E d’accordo con
chi propone di boicottare le Olimpiadi?
Le Olimpiadi si sono macchiate di sangue. Passeranno alla storia come le
Olimpiadi del massacro del Tibet.
L’Italia ha delle
responsabilità?
Certo. Quando i nostri ministri degli Esteri dicono che il Dalai Lama non
chiede l’indipendenza e tacciono su tutto il resto, su tutto quello che
d’altro chiede, fanno il gioco di Pechino. Quando ai tempi del presidente
Ciampi, con ministro degli Esteri Fini, si propose la rimozione dell’embargo
sulle armi alla Cina, posizione sostenuta poi anche da D’Alema, si finse di
ignorare il fatto che le armi vengono usate anche contro i tibetani. Romano
Prodi, in visita in Cina nel 2006, dichiarò nel comunicato finale che
l’Italia dà piena adesione alla politica di una sola Cina. Quella fu una
condanna a morte per Taiwan e per il Tibet. Nel 1948 l’Italia riconosceva il
Tibet come nazione indipendente. Lo dimostra il timbro trovato sul
passaporto di un funzionario tibetano che in quell’anno venne in viaggio nel
nostro Paese dopo avere ottenuto dal consolato generale italiano di New York
il permesso. Dal ’49 in poi l’Italia non ha più riconosciuto il Tibet per
un ridicolo opportunismo. Perché la Cina aveva dato prova di grande forza.
Cosa potrebbe
succedere se il Dalai Lama dovesse dare le dimissioni, come ha minacciato di
fare per protestare contro l’accanimento dei cinesi verso la sua figura?
Quello sarebbe un gesto estremo, dalle conseguenze gravissime. Perché i
tibetani si troverebbero non solo senza Dalai Lama, ma anche senza la
possibilità di crearne un altro. Secondo la tradizionale credenza della
trasmigrazione dell’anima, solo alla morte di un Dalai Lama, e dopo la sua
reincarnazione, può esserci un successore. Se il Dalai Lama vive non può
essercene un altro. Quello della successione è un grande problema. Perché
anche se il Dalai Lama non si dimette, alla sua morte sarà designato come
successore un bambino e prima che questo bambino sia in grado di capire la
dimensione culturale e politica del Tibet passeranno almeno venti anni. Un
interregno lunghissimo, che nelle attuali condizioni segnerebbe la morte del
Tibet. Per evitare tutto ciò il Dalai Lama ha ipotizzato che sia un conclave
a scegliere il suo successore. Ma i tibetani potrebbero non capire questa
manovra e non riconoscerlo. Oltretutto i cinesi nell’ottobre scorso, con la
famosa Ordinanza numero 5, si sono arrogati il diritto di scegliere tutti i
“budda reincarnati”. Una manovra che peraltro hanno già fatto con il
“Panchen Lama”, la seconda autorità spirituale del Tibet. Il bambino
designato dal Dalai Lama per questa carica è stato rapito e i cinesi hanno
nominato il loro Panchen Lama, che di recente è stato iscritto al Partito
Comunista.
Sono molte le
minoranze etniche che popolano la Cina. Ma verso i tibetani i cinesi
mostrano in accanimento particolare. Perché?
Perché il buddismo tibetano non permette l’assimilazione della popolazione.
Durante la rivoluzione culturale è stata distrutta una civilizzazione. Le
“pietre-mani”, quelle con su scritta l’invocazione sacra, sono state tolte
dal recinto del tempio e messe a pavimentare le latrine in segno di spregio
e tutte le statue sono state rotte per vedere se contenevano qualcosa di
prezioso. Ma in Tibet c’è un proverbio molto bello che dice “Le mura esterne
di pietra possono crollare, le mura interna del Dharma non possono essere
distrutte”. Come a dire che malgrado i loro templi e i loro testi sacri
siano stati distrutti la fede dei tibetani è rimasta integra. La forza dei
tibetani è la loro identità. Ed è per questo che malgrado siano passati 58
anni e due generazioni dall’invasione, oggi monaci ventenni scendono in
piazza a gridare Tibet libero. I cinesi lo sanno e sanno che solo
distruggendo l’identità culturale del Tibet possono assimilarli.
Il Tibet ha anche
grandi risorse.
Certo, poi vengono l’economia e le cose materiali, le materie prime, il
territorio e soprattutto i fiumi. Dal Tibet nascono i cinque fiumi più
importanti dell’Asia. L’Indo, il Bramaputra, il Mekong, il fiume Giallo e il
fiume Azzurro. Le guerre del futuro saranno guerre per l’acqua, controllare
la sorgente di fiumi che bagnano due miliardi e mezzo di persone sarà
decisivo. E poi una piattaforma di 8mila metri di altezza è l’ideale per
lanciare missili.
Lei ha vissuto
trent’anni a stretto contatto con i tibetani. Quale insegnamento ha ricavato
da questa esperienza?
Un insegnamento che mi ha modificato profondamente. Ho capito la loro
spiritualità, una spiritualità che prescinde da un Dio creatore. Grandi
maestri tibetani mi hanno spiegato come le forze del bene e del male saranno
sempre presenti e in eterno contrasto tra loro. Nessuna riuscirà mai a
prevalere. E io capii che c'era del vero in questa affermazione. Sono
cinquemila anni che ci battiamo perché il bene vinca sul male ma questo non
succede mai. Nel pensiero tibetano non esiste il dualismo che caratterizza
il pensiero occidentale. Non c’è un bene che si contrappone al male. Questo
significa che noi non abbiamo nel cuore la macchia di un peccato originale.
Quello che abbiamo è un’insidiosa nebbia nella nostra mente. Secondo
l’insegnamento tibetano l’uomo, dopo un lungo percorso, ha la possibilità di
uscire da questo “Samsara”, che è lo “stare nelle contraddizioni del mondo”,
per salire a un livello più alto, il “Nirvana”. Uno dei gradi maestri che
ebbi la fortuna di incontrare mi spiegò che oltre la mente non esiste né
samara, né nirvana. Il Libro tibetano dei morti, uno dei testi fondamentali
del pensiero tibetano, ha come sottotitolo “Dottrina dell’autoliberazione
mediante il riconoscimento delle divinità pacifiche e feroci della nostra
mente”. Le divinità pacifiche e feroci che noi vediamo dipinte nei monasteri
tibetani non sono il diavolo, ma quello che abbiamo nella mente. E con
un’attività costante è possibile modificare la nostra mente, favorendo gli
atteggiamenti positivi e comprimendo quelli negativi, come mi ha detto il
Dalai Lama. Da tutto questo risulta che la spiritualità è un processo di
autoperfezionamento. Una spiritualità che non impone il credere nei dogmi è
di una modernità straordinaria.
Qual è la
soluzione al problema tibetano?
E’ evidente qual è la soluzione al problema tibetano. E’ che crolli il
regime comunista cinese.
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