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IL SENSO DELLA DESTRA PER LA CULTURA
Il Pdl si prepara a governare e al complesso di superiorità della sinistra fa eco quello di inferiorità della destra. Soprattutto sul tema della cultura. Ma invece di rendere pan per focaccia, non sarebbe il caso di cambiare menu?
di PAOLA LIBERACE

[05 mag 08] Dopo la netta sconfitta elettorale del 13 e 14 aprile, aggravata dall’esito del ballottaggio romano, il centrosinistra italiano ha mantenuto solo in parte i buoni propositi di rinnovamento espressi in campagna elettorale: ad esempio, non ha saputo resistere alla tentazione di sfogare almeno in parte sugli elettori la frustrazione dell’insuccesso. E così, sulla falsariga delle dichiarazioni preelettorali di D’Alema circa la preferenza della “fascia meno acculturata” per la destra, politici e intellettuali engageè hanno avuto gioco facile ad attribuire all’ignoranza ormai dilagante, signora mia, la colpa della batosta; senza peraltro riuscire a spiegare come abbiano fatto gli stessi elettori, che due anni fa avevano sostenuto Prodi, a “dimenticare” improvvisamente istruzione e intelligenza per consegnarsi nelle mani di Berlusconi. Il caso dell’architetto Fuksas è emblematico: per offrire la prova del degrado culturale, ha dichiarato il Cavaliere colpevole di errata citazione di fronte al tribunale santoriano; salvo scivolare clamorosamente su una buccia di banana, visto che alla prova dei testi era la sua correzione, e non la citazione in questione, a risultare errata. Ancora, dopo aver conquistato il Campidoglio un Alemanno raggiante aveva gioco facile a rimproverare a Lucia Annunziata di fronte alle telecamere di Annozero la spocchia di chi si sente strutturalmente superiore rispetto all’interlocutore.

Il complesso di superiorità intellettuale della sinistra, insomma, è duro a morire: persino dopo essere stato sonoramente bocciato alla prova delle urne. Ma se il Partito democratico dovrà in qualche modo fare i conti con un simile atteggiamento – che sembra scomparso nelle parole dei suoi dirigenti, ed emerge invece ancora prepotentemente nel comportamento delle “seconde linee” -, il centrodestra dovrà a sua volta fronteggiare un altro pericolo, non meno insidioso. Si tratta di un complesso uguale e contrario, quello di inferiorità: che fatalmente spinge i rappresentanti della parte largamente maggioritaria del Paese a riconoscere la capacità di elaborazione e controllo intellettuale degli avversari, tanto porgendole apertamente omaggio quanto – più spesso – criticandola e insieme mostrandosi impazienti di sostituirsi ad essa. E così, ad ogni successo elettorale, ad ogni conferma della leadership reale nel Paese, ad ogni rafforzamento dei segnali di esistenza di una vera e propria “Right nation” italiana (di cui Ideazione parlò in tempi non sospetti), rispunta l’aspirazione a rimpiazzare i santini, le processioni e i riti propiziatori della sinistra con altrettanti santini, processioni e riti propiziatori.

Davvero è qui il punto? Davvero la strada per rafforzare stabilmente la presa sugli elettori passa da questa strada? Davvero consolidare il consenso significa penetrare negli strati “profondi” della coscienza nazionale identificati nell’editoria, nella scuola, nella stampa, nella cinematografia? Da quando Antonio Gramsci rispose affermativamente, teorizzando la figura dell’intellettuale organico, l’egemonia culturale è diventato uno dei capisaldi retorici dei comunisti prima e dei progressisti-ulivisti-riformisti-democratici poi, mai scalfito - a differenza di altri - neppure dalle cadute di muri e regimi. E forse proprio da una riconsiderazione della figura di Gramsci dovrebbe passare un serio tentativo di rimettere in discussione il concetto: magari tornando proprio a quel Benedetto Croce contro cui Gramsci aveva elaborato le sue riflessioni, e che nutriva dell’uomo e della sua statura culturale un’opinione non molto lusinghiera.

In attesa di fare i conti con il gramscianesimo, tuttavia, si potrebbe semplicemente permettersi di farne a meno: gettando lo sguardo in avanti, su quel Novecento che, con l’esplosione delle scienze umane, alla parola “cultura” ha nel tempo assegnato significati più ampi e vari. Se la distinzione tra cultura “alta” e “bassa” è ormai difficile da sostenere, è oggi addirittura impossibile identificare gramscianamente la prima con la cultura “nazionale”, quella della “casta” intellettuale, e la seconda con la cultura del “popolo”, ad essa opposta. In alcuni casi se n’è accorta persino la sinistra, che tuttavia non è riuscita a liberarsi del tic gramsciano, limitandosi a spostare negli anni i propri avamposti: da Garibaldi a Pierino, da De Sanctis a Moretti, dall’elite alla Nutella. E’ così che si è affermato l’inutile gioco, troppo spesso assecondato a destra, delle bandierine: una gara viziosa a giudicare cosa sia “di destra” e cosa “di sinistra”, già meritoriamente ridicolizzata anni fa da Giorgio Gaber. E’ così che si è arrivati fino ai giorni nostri, a domandarsi se Alemanno manterrà o abolirà la Festa del Cinema e se, mantenendola, sostituirà il comitato alla sua guida con uomini “di destra”; lo stesso quiz si ripete non solo per manifestazioni come i vari Festival (della Filosofia, della Scienza, della Matematica), che pure di culturale hanno conservato almeno il nome, ma anche per quelle “mondane” come la Notte Bianca. 

A dimostrare tutta l’oziosità di simili esercizi stanno i risultati elettorali, che fanno di Silvio Berlusconi un fenomeno politico ormai indiscutibilmente radicato; a dispetto di una classe giornalistica stabilmente ostile, tanto sulla stampa che in radio e televisione, di un sistema scolastico intriso di mitologia marxista, e in generale di un’intellettualità nazionale – nell’università, nella ricerca, persino nella cinematografia - intenta al perenne lamento contro i “barbari”. Il centrodestra è diventato maggioranza effettiva e attiva nel Paese, non solo “nonostante” la cultura dominante, ma a prescindere da essa: alla quale gli elettori, spesso più scaltri di molti intellettuali, sanno riconoscere l’importanza e il ruolo che merita, senza in(ter)ferenze gramsciane o indebite confusioni.

Piuttosto che dedicarsi alla consueta rincorsa per occupare le postazioni culturali della sinistra e invertirle di segno, dunque, la maggioranza politica dovrebbe impegnarsi a superare una volta per tutte il proprio complesso di inferiorità culturale. Come ha già fatto su Internet, terreno nel quale gli organi di informazione, i portali e i blog che si riconoscono nel centrodestra rappresentano ormai una presenza imponente, quasi ingombrante. E questo malgrado il fatto che anche stavolta ci sia stato chi ha provato a protestare che la Rete è “di sinistra”, proseguendo in un esercizio non più solo ozioso, ma addirittura ridicolo. Le elezioni sono vinte, il Pdl amministra Roma, nell’uno e nell’altro caso il margine di consenso è ampio abbastanza da garantire stabilità e governabilità: dopo le ideologie, è arrivato il momento di accantonare i complessi. Continuare a rispondere pan per focaccia non farebbe che confermare una sudditanza ormai francamente inopportuna: meglio, finalmente, cambiare menu.


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