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IL SESSANTOTTO DEGLI ALTRI / 1
Quarant'anni fa, mentre gli studenti occidentali occupavano le università, a Praga i giovani lottavano per la libertà. Ecco la storia di una rivoluzione fallita.
di PIERLUIGI MENNITTI

[07 lug 08]
Il monumento al Sessantotto degli altri si trova nella parte alta della piazza, sotto la statua del pacifista duca di Boemia vissuto nel decimo secolo. Il suo nome è San Venceslao: lo sguardo fiero e sereno, fissato per l’eternità nel bronzo, in sella a un cavallo con una folta criniera. Lì dal piedistallo, osserva la fila di curiosi che si avvicina in silenzio per deporre un fiore sulla lapide collocata ai suoi piedi. La piazza è vasta e rettangolare, il piano è obliquo. D’inverno il vento gelido dei monti s’infila nel lungo corridoio verticale. Per giungere ai piedi della statua bisogna camminare in leggera salita con passo costante, guai a fermarsi per voltarsi indietro, altrimenti la gamba si fa pesante e sopraggiunge il fiatone. Tutto d’un fiato bisogna andare. Piazza Venceslao è uno dei luoghi simbolici dell’Europa centrale. Qui si concentrarono gli episodi più significativi della primavera di Praga, anno di grazia 1968. Qui la folla cocciuta e indignata attese paziente e silenziosa il crollo del regime: era il 1989, l’anno della rivoluzione di velluto. Qui, il 16 gennaio 1969, un giovane studente di filosofia di vent’anni, Jan Palach, si diede fuoco per protesta. La primavera del Sessantotto era appassita sotto il gelido soffio dei carri armati sovietici. I cingolati avevano riportato l’ordine e con esso la cappa del silenzio e del grigiore. La vita era, ormai, altrove. Jan Palach accese se stesso in un ultimo, disperato tentativo di riaccendere la passione dei suoi compagni di studi, degli intellettuali, dei suoi concittadini. Si spense definitivamente dopo tre giorni di atroci sofferenze, in un ospedale praghese.

Oggi la sua faccia è tornata sulla piazza. Gli occhi sognanti e il ciuffo ribelle in una foto incorniciata nella lapide dedicata a tutte le vittime del comunismo. Non è solo. Accanto alla sua, una seconda foto ritrae Jan Zajic, stesso ciuffo sfrontato, stesso sguardo rapito. Un altro studente che in quegli stessi giorni era in sciopero della fame. Emulò Palach poco più di un mese dopo. Era il 25 febbraio. Un’altra vampata di luce e di passione estrema ma ormai l’inverno era calato del tutto. Furono quattro le torce umane, gli ultimi fuochi del Sessantotto degli altri. Ancora due studenti si diedero fuoco in piazze di provincia. Nell’inverno scadenzato da questi sacrifici estremi, il leader del movimento studentesco Jan Kavan riparò in Gran Bretagna dove diede vita alla casa editrice Palach-Press. In patria, nella vita reale e socialista, le ultime rabbiose proteste presero a pretesto i festeggiamenti per la vittoria della Cecoslovacchia contro l’Unione Sovietica nella finale mondiale di hockey su ghiaccio. Mosca si decise a fare l’ultimo passo e a silurare il compagno Alexander Dubcek, il comunista dal volto umano che aveva interpretato politicamente – da socialista illuminato – il Sessantotto praghese. Gli avevano già tolto la credibilità, poi l’orgoglio, poi l’autonomia. Lo avevano rapito e portato in Ucraina, minacciato di morte, costretto a rientrare e a parlare alla nazione. Ora gli davano l’ultimo benservito. Gustav Husak prese il posto di Dubcek e partì la grande epurazione, in politica, nei giornali, negli ambienti culturali.

In teoria, era tutto finito. In realtà, niente fu più come prima. Come in Occidente così in Europa orientale, il Sessantotto lasciò le sue tracce indelebili. Questo Sessantotto capovolto, anticomunista e forgiato nella lotta contro un regime di ferro e fuoco, seppe infiltrarsi nelle crepe ormai aperte del realsocialismo. Nella mentalità dei cittadini, nelle associazioni segrete, nei samizdat illegali, nelle organizzazioni dei dissidenti. Riuscì a minare alla radice il rispetto e l’obbedienza verso l’autorità, la sottomissione alla burocrazia. Fu un lento ma corrosivo veleno che aprì gradualmente nuovi spazi di contestazione e di autonomia. Fino a un’altra data importante, quella dell’Ottantanove, di sicuro più carica di storia e di significato di quella del Sessantotto, eppure curiosamente ad essa collegata, non fosse altro che per quel gioco quasi cabalistico che permette di rovesciare le cifre e ritrovarsi catapultati nell’anno della rivoluzione compiuta. La caduta dei regimi comunisti, dei muri, delle burocrazie, delle nomenklature. Un percorso sotterraneo lega le due esperienze. (1. Continua).


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