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SCUOLA, UNO STATO LEGGERO E' POSSIBILE
Alla ricerca di un'idea dell'istruzione condivisa all'insegna del pluralismo culturale, dell'autonomia e della libertà. Dove gli studenti siano protagonisti.
intervista a VALENTINA APREA di PAOLA LIBERACE

[10 giu 08]
Una cultura condivisa, oltre le ideologie; una cultura che si scrolla di dosso lo statalismo, l’ingerenza della propaganda, i tentativi di imposizione delle idee. Soprattutto, una cultura costruita a partire da un nuovo sistema di istruzione, all’insegna della pluralità delle culture formative, dell’autonomia, della libertà. E’ questa l’idea che Valentina Aprea, presidente della Commissione cultura della Camera dei deputati, proporrà nella sua azione; e su cui maggioranza e opposizione potrebbero (finalmente) convergere.

Lei ha recentemente sottolineato l'importanza, per il ruolo istituzionale che le è stato affidato, del nuovo clima di collaborazione tra maggioranza e opposizione. Crede che sia possibile superare, in quest'ottica, la diatriba sulla cosiddetta egemonia culturale della sinistra, e lavorare insieme per favorire la crescita di una cultura condivisa nel Paese?
Lo spero. E ce la metteremo tutta per farlo. Lo meritano i problemi da risolvere. Soprattutto la qualità della formazione dei nostri ragazzi che sono costretti dall’attuale struttura scolastica a subire la dispersione e il disadattamento scolastico più alti d’Europa. L’egemonia culturale della sinistra, infatti, si è giocata a lungo su principi e strategie che oggi lo stesso Pd riconosce sbagliati. Si pensi solo alla questione del merito, demonizzato in nome dell’ugualitarismo, per decenni. Oppure al principio per cui, in nome dell’uguaglianza, occorreva dare a tutti la stessa scuola, per lo stesso numero di anni, con la stessa struttura organizzativa, perfino con gli stessi contenuti. E tutta statale: come se questa qualifica fosse di per sé educativamente e culturalmente taumaturgica. Ogni differenziazione didattica, organizzativa, ordinamentale e istituzionale era ritenuta una scelta reazionaria per principio. Una chiara eredità del ‘68 mai superata, ma che oggi, a 40 anni dalla sua strutturazione, sembra finalmente sottoposta alle critiche della nuova cultura riformista. Molte delle idee proposte nella scorsa legislatura, come quelle della pari dignità delle diverse culture formative, mi paiono oggi accettate anche dalla maggiore forza di opposizione, almeno in linea di principio. Restano ancora inerzie da uniformità vetero statalistiche da vincere, ma credo che la strada sia ormai tracciata, per tutti. 

Forte della sua esperienza, politica e non, nella scuola, nel suo discorso di insediamento lei ha dedicato un'attenzione particolare al settore dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Secondo lei, dopo anni di riforme e controriforme, di slogan e controslogan, maggioranza e opposizione possono oggi convergere su un'idea di scuola? Quale?
E’ presto detto: la scuola non è un’istituzione al servizio dello Stato o dell’economia o, peggio, delle maggioranze politiche. E’ al servizio dello Stato, dell’economia e della politica se e solo se è anzitutto al servizio della persona e ne promuove il pieno sviluppo, attraverso la cultura, al massimo livello possibile: come recita l’articolo 1 della legge n. 53/03, mutuando il concetto dalla Costituzione. L’idea di scuola, poi, non può essere ridotta a “scuola statale”, ma deve coinvolgere in termini di pari dignità educativa e culturale, non solo “le scuole paritarie”, quelle non statali che seguono gli ordinamenti delle statali e per le quali va assicurata anche la parità economica, ma anche “le scuole dell’istruzione e formazione professionale”. Bisogna quindi ragionare in termini di sistema, e di qualità dell’intero sistema dell’offerta formativa, invece che in termini ideologici, perché non possiamo permetterci il lusso di avere gli attuali tassi di dispersione e di mancato successo formativo. Non devono essere i ragazzi ad adattarsi alla scuola licealizzata: è la scuola che, articolandosi in percorsi differenziati di pari dignità, deve adattarsi alle caratteristiche e agli stili di apprendimento di ciascuno. La lotta condotta nella scorsa legislatura dalla sinistra sindacale e politica contro la pari dignità dei percorsi dell’istruzione e formazione professionale delle Regioni a partire dai 14 anni al fine di renderli adatti alla soddisfazione del diritto dovere di istruzione e formazione fino a 18 anni è stata, in questo senso, poco lungimirante e soprattutto ha fatto pagare ai ragazzi il fondamentalismo ideologico.     

E' possibile a suo parere trasmettere fin nel cuore dell'attività didattica la necessità di superare le contrapposizione ideologiche? A questo proposito, cosa ne pensa della proposta - avanzata ancora di recente - di intervenire sui testi scolastici condizionati da ottiche ideologiche, in particolare quelli di storia?
Appartengo al Popolo delle libertà. La libertà, qualsiasi libertà, a maggior ragione quella culturale, esercitata nell’ambito delle leggi, è un grande valore non solo da difendere, ma da allargare sempre di più, in tutti i campi della vita sociale. Sono dunque lontanissima dall’idea che si possa imporre per decreto qualcosa che abbia a che fare con la libertà delle idee, qual è la revisione dei libri di testo troppo ideologizzati. Credo invece che, per risolvere questo e gli altri problemi posti da quarant’anni di ideologismi esasperati occorra agire sulla serietà dello studio e della formazione iniziale e in servizio. Insegnanti ben preparati in strutture universitarie degne di questo nome pensano con la loro testa e sono in grado di discriminare senza bisogno di dande ministeriali e statali ciò che è storia da ciò che è militanza politica. La stessa regola vale per i genitori. Sono contraria a pensarli così poco padroni di sé e così bisognosi di cure da aver bisogno di qualcuno che li guidi e che si sostituisca, per presunta loro indegnità (non capirebbero, non sarebbero in grado di scegliere, non saprebbero qual è il loro bene), nella loro personale responsabilità. Anche qui agirei di più sulle occasioni di vero dibattito e di vera formazione, nelle quali si vedrebbe ad occhio nudo chi fa propaganda e militanza e chi fa cultura e storiografia.    

La VII Commissione concentrerà tra l'altro la sua attività sulle materie che attengono all'informazione, allo sport, all'editoria e ai beni e alle attività culturali. Quali saranno i vostri interlocutori preferenziali in ciascuno di questi settori?
Naturalmente i responsabili istituzionali, statali e non statali. La strada da percorrere è sempre quella dell’argomentazione personale e del dialogo istituzionale. Si pensi ad esempio a quanto un coordinamento tra scuola, enti autonomi sportivi, enti locali e iniziative di territorio potrebbero fare in tema di educazione stradale, ormai una vera e propria emergenza tra i giovani. Oppure come potrebbe cambiare il rapporto tra scuola e territorio se le attività culturali scaturissero da progetti trasversali condivisi e reciprocamente riconosciuti, nonché, per la scuola, inseriti nella propria programmazione anche didattica: forse il territorio (e i ragazzi) si riconcilierebbero con la scuola, e viceversa; si avrebbe un’idea meno formalistica, ma più efficace, di scuola e, allo stesso tempo, cartelloni meno disparati o mono-orientati delle iniziative culturali.

Lei ha insistito sulla necessità di contrastare, anche nel merito dell'attività della Commissione, lo statalismo, l'eccesso di Stato e la sua invasività (ad esempio nel ramo scolastico, dove di fatto non è mai stata realizzata l'autonomia prevista dalle leggi). In altri rami del mondo della cultura, come quello artistico e cinematografico, l'intervento statale viene visto tuttora come indispensabile tutela, necessaria per proteggere le opere d'ingegno nazionali. Ritiene che esista un modo di conciliare nel campo culturale uno Stato leggero con l'esigenza di rilanciare i nostri talenti anche all'estero?
Lo statalismo ha, in Italia, radici storiche. E nell’Ottocento ha svolto senza dubbio un ruolo decisivo per il nostro sviluppo. Con il Fascismo, però, ha cominciato a mostrare il suo vero volto: cioè mirare al monopolio di tutte le attività della società civile. L’inerzia della storia, insieme al fatto che il vecchio Pci era statalista e centralista, ha fatto sì che nella Repubblica, depurato lo statalismo storico dalle sue propensioni autoritarie e antidemocratiche, se ne continuasse la tradizione e l’impostazione. L’Italia, infatti, nonostante le significative privatizzazioni degli ultimi vent’anni, è ancora il Paese che vede la presenza dello Stato nei settori della scuola, della cultura, del teatro, del cinema, dell’economia ad un livello che non ha più pari al mondo. Caduto il sistema vigente nei Paesi dell’orbita sovietica, in questo fenomeno, siamo i primi. Credo, invece, che sia giunto il momento di valorizzare molto di più le iniziative private e della società civile. Lo Stato dovrebbe governare e controllare. Non gestire in prima persona, come capita nella scuola. Per questo ho sempre sostenuto due rivendicazioni che sono le facce della stessa medaglia: l’autonomia delle scuole e la parità tra scuole statali e non statali. Tanto meno dovremmo avere uno Stato che, come capita nel cinema e nel teatro, sostanzialmente paga a fondo perduto iniziative di cui non esiste poi un rigoroso e imparziale (nel senso di ente terzo) accertamento dello spessore culturale e civile.


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