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SULLE ORME DI UN FANTASMA
Il poeta Matsuo Basho, oltre tre secoli fa, passò la vita viaggiando in cerca della bellezza. I suoi passi e i suoi versi ispirano ancora i lettori più raffinati.
di Rossella Fabiani

[23 feb 08] Lieve è il rumore dei passi che seguono il cammino del maestro giapponese, “la strada che gli dei mi hanno indicato”. Nel 1689, il poeta Matsu Basho partì per l’entroterra del Giappone. Nel suo diario, “Lo stretto sentiero dell’Oku” descrisse una pista, sul Passo Natagiri, ancora percorsa dai suoi devoti. “Ogni giorno è un viaggio, e il viaggio è la dimora”, scrisse Matsuo Basho oltre 300 anni fa nelle prime righe del suo capolavoro “Oku no Hosomichi” (“Lo stretto sentiero dell’Oku”, il termine Oku indicava le province nordorientali del Giappone). Con queste parole in mente, lo scrittore Howard Norman si prepara a seguire le orme del venerabile poeta, lungo il suo stretto sentiero: lo stesso viaggio di duemila chilometri attraverso il Giappone che egli intraprese nel 1689. Tanti giapponesi sanno almeno una poesia di Basho a memoria. E migliaia di persone ancora vanno in pellegrinaggio sul suo luogo di nascita e sulla sua tomba e ripercorrono tratti del suo itinerario. A distanza di tre secoli, “Lo Stretto sentiero”, tradotto in molte lingue, parla ancora ai lettori di tutto il mondo. Viviamo in un’epoca di tumulti e di incertezze e non è difficile identificarsi con il sottile disagio che tormentava Basho. Qualunque ne fosse l’origine – il poeta ebbe una vita turbolenta in un Giappone in pieno mutamento – la malinconia è l’elemento dominante di gran parte dei suoi scritti e, alla fine, fu uno dei fattori che lo spinsero a mettersi in viaggio.

 

Non sappiamo molto dei primi anni della vita di Basho che nasce nel 1644 nella città di Ueno, sorta intorno al castello eretto nel 1611 da Todo Takatori, il signore della provincia di Iga, a circa 30 chilometri da Kyoto, l’antica capitale. Il luogo era sinistramente famoso a causa dei ninja, spie al servizio del governo, protette e controllate dai Todo, esperte in arti marziali, tecniche e trucchi per carpire i segreti dei circa 300 daimyo (grandi nomi), i feudatari che dominavano nelle 74 province in cui era diviso il Giappone. Suo padre, un samurai di rango inferiore, doveva guadagnarsi da vivere insegnando a scrivere ai bambini. Quasi tutti i fratelli e le sorelle di Basho diventarono contadini. Lui invece si appassionò alla letteratura, forse grazie al figlio del signore locale, al cui servizio lavorava. Imparò l’arte della poesia da Kigin, un importante poeta di Kyoto, e da subito studiò i principi del taoismo e la poesia cinese da cui continuò ad essere influenzato per tutta la vita. Dopo la morte del suo maestro, Basho iniziò a soggiornare a Kyoto dove praticò lo haikai, una forma poetica composta di versi concatenati. Ai tempi di Basho, la prima strofa dello haikai si stava evolvendo in un linguaggio poetico autonomo: lo haiku, un componimento di tre versi brevi e non rimati che cerca di catturare l’essenza della natura. Basho pubblicò i suoi primi haiku sotto diversi nomi: con ogni probabilità ne cambiò una ventina, ognuno dei quali aveva per lui un significato personale. Uno era “Tosei”, “Pesca verde”, un omaggio al poeta cinese Li Po “Pruno bianco” .

 

Quasi trentenne, Basho lasciò Ueno per raggiungere Edo. La città, che sarebbe diventata l’odierna Tokyio, (Capitale dell’Est) contava a quei tempi quasi 500mila abitanti. Era dominata dal castello degli shogun Tokugawa, dai palazzi dei daimyo circondati da vasti giardini, dalle dimore dei samurai. Frequentata da artigiani, commercianti e contadini, Edo era una città giovane e vivace con una popolazione in rapida crescita, fiorenti commerci e molte opportunità per un letterato. In poco tempo, il poeta riunì intorno a sé un gruppo di studenti e di ammiratori che divenne noto come la Scuola di Basho. Nel 1680 uno dei suoi allievi gli costruì una casetta accanto al fiume Sumida e, poco tempo dopo, un altro studente gli donò un albero di basho (una specie di banano). Da allora il poeta cominciò a firmarsi con il nome che noi conosciamo. Oppresso da dubbi spirituali, è in questo periodo che Basho intraprese lo studio del Buddismo zen. Nel 1684 Basho viaggiò per alcuni mesi nella zona a ovest di Edu: nasce, così, il suo primo racconto di viaggio, il “Diario di uno scheletro esposto alle intemperie”. Ai suoi tempi si viaggiava a piedi, dormendo in alloggi di fortuna. Basho si rimise in viaggio nel 1687 e nel 1688, raccontando i suoi nuovi itinerari nel “Diario di Kashima” e nel “Piccolo manoscritto della bisaccia”. Erano haibun, una forma di componimento misto (haiku e prosa) che Basho innovò profondamente, portandolo ai vertici della raffinatezza. I diari poetici di viaggio e la vita povera e austera che conduceva aggiunsero lustro alla sua reputazione. Eppure all’età di 44 anni, Basho confidò agli amici di sentire su di sé tutto il peso del mondo.

 

Scrive: “sento le brezze dell’aldilà soffiare sul viso”. E comincia a pensare ad un pellegrinaggio verso i luoghi che voleva vedere prima di morire: luoghi importanti per il loro significato letterario, religioso o militare. Nel maggio del 1689, insieme al suo amico e discepolo Sora, portando con sé soltanto una bisaccia, i materiali per scrivere e gli abiti per cambiarsi, Basho parte ancora una volta come uno hyohakusha, “colui che va senza direzione”. Cammina per cinque mesi, percorrendo quasi duemila chilometri, tra villaggi e montagne, colli e pianure, a nord di Edo e lungo il Mar del Giappone. Da questo viaggio nasce il suo capolavoro, “Lo stretto sentiero”. Il libro è un viaggio spirituale, un percorso buddhista in cui si lascia ogni bene mondano e ci si affida al destino. Il libro è un’intramontabile mappa spirituale. Ancora oggi sulla strada di Basho si trovano paesaggi eterni e antichi luoghi di culto e grazie a loro, un viaggiatore dalla mente aperta può entrare in contatto con il passato senza che nulla di ciò che l’uomo ha costruito nel frattempo possa impedirglielo. Inoltre, la bellezza non sta soltanto in quello che si osserva con attenta compassione, ma anche nella conoscenza di se stessi quando si è soli. Una volta il poeta confidò a un allievo di “intrattenersi” sovente con grandi poeti cinesi e giapponesi del passato e definì uno di questi incontri come “una conversazione tra un fantasma e un futuro fantasma”. Chissà se adesso anche Howard Norman, lungo il suo stretto sentiero, arriverà a vedersi come un futuro fantasma.



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