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da Ideazione marzo-aprile 2005
"Serve un'Alleanza delle democrazie"

intervista a JAMES M. LINDSAY di BARBARA MENNITTI

[02-2005] “L’Onu è nata dopo la seconda guerra mondiale con uno scopo ben preciso: impedire le guerre di aggressione, preservando le sovranità degli Stati. Il suo principio fondante è che tutti gli Stati sono uguali. Ma oggi è un principio obsoleto”. Secondo James M. Lindsay, vicepresidente e direttore degli studi del Council On Foreign Relations, è questa la vera tara ereditaria che impedisce alle Nazioni Unite di affrontare con qualche risultato le nuove sfide globali. Per questo Lindsay, che abbiamo incontrato a New York, ha proposto la creazione di un nuovo organismo, l’Alleanza delle democrazie, che potrebbe affiancare l’Onu quando questo non riesce a concertare un’azione.

Da Srebrenica al recente scandalo Oil for food, passando per la conferenza di Durban, l’Onu nell’ultimo decennio ha fornito pessime prove quando è stato chiamato in causa. Ormai è un dato quasi universalmente accettato che le Nazioni Unite debbano essere urgentemente riformate. Secondo lei, quali sono le principali fonti di problemi dell’Onu e quali riforme pensa che dovrebbero essere intraprese?
Le Nazioni Unite sono in crisi. Nel dicembre del 2004, il Panel di alto livello nominato dal segretario generale Kofi Annan ha pubblicato un rapporto che sottolineava la necessità di riformare l’Onu dalle fondamenta. Il rapporto non risparmia aspre critiche. Parla di “grandi fallimenti” nel fermare la pulizia etnica e il genocidio in Bosnia, Ruanda e oggi nel Darfur. Definisce la risposta dell’Onu alla crisi Hiv/Aids «scandalosamente tardiva» e le risorse stanziate «vergognosamente inadeguate». E critica aspramente la Commissione dei diritti umani dell’Onu per aver creato «un deficit di legittimità che ha gettato l’ombra del dubbio sulla reputazione generale delle Nazioni Unite». Il rapporto provvisorio della Commissione Volcker sul programma Oil for food, reso pubblico lo scorso febbraio, è ugualmente critico. Fornisce prove convincenti di malagestione, se non di vera e propria corruzione. Sembra che un alto funzionario dell’Onu abbia utilizzato la sua posizione per aiutare una piccola impresa ad ottenere dei contratti per la vendita di petrolio iracheno e che le Nazioni Unite abbiano violato le loro stesse regole in materia di gara di appalti quando hanno assunto aziende per sovraintendere al programma.

Entrambi i documenti seguono a ruota dozzine di rapporti e studi esterni che trovano manchevolezze praticamente in ogni aspetto delle operazioni dell’Onu. Tali studi identificano due grandi tipologie di problemi, una delle quali (almeno in teoria) è più facilmente risolvibile dell’altra. Il problema che si può risolvere più facilmente è quello della cattiva gestione. L’Onu è gestita male secondo quasi ogni metro di giudizio. Opera in maniera non trasparente, il sistema del personale non è meritocratico, e nessuno paga per gli errori che commette.

E quello più difficile?
Il problema più difficile riguarda il concetto stesso che è alla base delle Nazioni Unite: forse non è l’istituzione giusta per gestire molti problemi che oggi dobbiamo affrontare a livello mondiale. 

Ritiene che una organizzazione come l’Onu, concepita prima della seconda guerra mondiale e costruita durante gli anni della Guerra Fredda, abbia ancora motivo di esistere in un mondo dove gli equilibri sono tanto mutati? E, se sì, per svolgere quali funzioni?
Sì, le Nazioni Unite hanno un posto nel mondo post Guerra Fredda. Ma la cosa più importante è riconoscere quello che l’Onu non può fare. Come si legge nel rapporto del Panel, il mondo è molto cambiato dalla fine della seconda guerra mondiale, quando le Nazioni Unite furono istituite. Allora il principio fondatore era quello di affermare l’uguaglianza della sovranità dei suoi membri e di impedire guerre di aggressione, obiettivi piuttosto ovvi per un’organizzazione nata in seguito al conflitto più distruttivo della storia. I pericoli che oggi minacciano il mondo sono completamente diversi e per molti aspetti più difficili da risolvere. Sono originati per lo più da processi interni agli Stati piuttosto che da comportamenti esterni. L’Onu ha compiuto enormi sforzi per avere un ruolo efficace su questo nuovo terreno. Vi sono stati alcuni successi, per esempio negli anni Novanta quando ha contribuito a porre fine ai conflitti in Cambogia, Timor Est, El Salvador, Mozambico e Namibia. Ma il dato fondamentale in tutti questi casi è che le parti in causa volevano giungere alla fine del conflitto.

I caschi blu dell’Onu sono in grado di mantenere la pace, quando le parti in guerra decidono di non combattere, ma, come abbiamo visto in Somalia, nei Balcani e in altri posti, non possono imporre la pace dove non c’è. Inoltre, si tratti del Ruanda dieci anni fa, del Kosovo cinque anni fa, o della Cecenia e del Sudan oggi, sappiamo che le Nazioni Unite sono impotenti quando un regime o i suoi sostenitori sono decisi a massacrare il loro stesso popolo. E, come dimostrano dodici anni di risoluzioni che chiedevano il disarmo dell’Iraq, anche il consenso nell’ambito del Consiglio di Sicurezza sulla necessità di agire non garantisce che la volontà dell’Onu venga rispettata.

I tentativi di migliorare la capacità dell’Onu di rispondere alle minacce per la sicurezza globale sono degni di lode. Ma non vedremo mai un esercito delle Nazioni Unite. E la riorganizzazione del Consiglio di Sicurezza, l’addestramento dei peacekeepers o l’aumento dei finanziamenti, miglioreranno solo in parte la capacità di azione dell’Onu. Il vero problema è che queste proposte di riforma non vanno al cuore di quello che affligge l’organizzazione: il suo principio fondatore è obsoleto. In un mondo in cui le principali minacce alla sicurezza vengono da processi interni agli Stati, il principio che i membri dell’Onu debbano essere trattati come uguali sovrani, senza considerare il carattere dei loro governi, non ha più senso.

Oggi si parla molto della possibilità di creare una nuova organizzazione, la cosiddetta Alleanza delle democrazie. Qual è la sua opinione a riguardo?
Il mio collega Ivo Daalder ed io abbiamo proposto di creare un’Alleanza delle democrazie. Al momento stiamo scrivendo un libro che esponga le nostre tesi per esteso. È il seguito logico del nostro libro America Unbound: the Bush revolution in foreign policy. Lì criticavamo l’assunto di Bush secondo il quale il modo migliore per massimizzare la sicurezza americana era quello di minimizzare le limitazioni alla libertà d’azione degli Stati Uniti, specialmente quelle limitazioni dovute all’appartenenza a istituzioni internazionali. Un’Alleanza di democrazie non si costruisce in un giorno. Da quando Robert Schuman delineò la sua idea di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ci sono voluti più di quarant’anni per arrivare alla creazione formale di un’Unione Europea e l’evoluzione politica del Vecchio Continente continua ancora. Ci potrà volere altrettanto tempo o anche di più perché emerga un’Alleanza delle democrazie in grado di funzionare. La costruzione di tale organismo, tuttavia, sotto molti aspetti è meno arduo della creazione di un’Europa unita. Schuman non aveva riferimenti storici per la sua idea e due guerre mondiali facevano presupporre il fallimento dei suoi sforzi. Oggi, invece, i mattoni per una cooperazione formalizzata fra le democrazie esistono già. L’Unione Europea e la Nato sono due ottimi esempi. La cosa importante è che le principali democrazie del mondo, guidate dagli Stati Uniti e i suoi alleati, si impegnino a costruire un nuovo tipo di istituzione internazionale, basata esplicitamente sul carattere politico dei suoi membri. Le democrazie sono diverse dalle autocrazie. Capiscono e rispettano lo stato di diritto e i diritti degli individui. Se può esistere un G-20, perché non un D-20 o addirittura un D-50?

Gli argomenti politici a favore di un’Alleanza delle democrazie sono forti quanto quelli sostanziali. Molti americani mettono in dubbio la legittimità dell’Onu perché governi autoritari prendono parte ai suoi processi decisionali. Lo dimostrano la reazione dell’opinione pubblica americana per la presenza del Sudan nella Commissione per i diritti umani dell’Onu, e la facilità con cui il presidente Bush ha ignorato il rifiuto dell’Onu di appoggiare la guerra in Iraq. Un’Alleanza delle democrazie avrebbe la legittimità che manca all’Onu, perché soddisferebbe la necessità, sentita negli Usa tanto a destra quanto a sinistra, di promuovere i valori dell’America, assicurandone, al tempo stesso, gli interessi. Un’Alleanza darebbe anche all’Europa quello che desidera: un modo per persuadere gli Usa a riabbracciare il multilateralismo formale di cui erano stati i primi paladini dopo la seconda guerra mondiale. Un’alleanza delle democrazie darebbe anche agli americani una cosa che desiderano: un potente mezzo per incoraggiare l’Europa, che si aggrappa al suo orientamento regionale mentre il mondo diventa globale, ad assumere maggiori responsabilità per fronteggiare i problemi mondiali. Un’alleanza, infine, offre qualcosa anche alle democrazie non occidentali come il Brasile, l’India e il Sudafrica: un ruolo più forte nel determinare la direzione della politica internazionale.

Come pensa che dovrebbe essere articolata questa Alleanza e quali funzioni dovrebbe svolgere?
Il primo criterio per far sì che un’Alleanza delle democrazie funzioni, è quello di limitarne l’accesso a paesi con radicate tradizioni democratiche. Il grande punto debole della Comunità delle democrazie, un progetto lanciato nel 2000 a Varsavia per unire i paesi “impegnati per la democrazia”, è che getta la rete troppo in là. Secondo nessun criterio ragionevole l’Egitto, il Qatar e lo Yemen – per menzionare solo alcuni dei paesi che sono andati a Varsavia – sono democrazie. Molti altri membri di questa Comunità sono democrazie neonate o semi-democrazie che potrebbero – e infatti in alcuni casi è successo – ricadere in governi autoritari.

L’accesso all’Alleanza delle democrazie dovrebbe invece essere limitato ai paesi in cui tale sistema di governo è talmente radicato da rendere inconcepibile un’involuzione autoritaria. Usando i criteri e le categorie compilate da organizzazioni rispettate come la Freedom House e il Polity IV Project dell’Università del Maryland, circa cinque dozzine di paesi superano la soglia per l’accesso.

Non ne fanno parte solo i candidati ovvi come i paesi dell’Osce e il Brasile, l’India e il Sudafrica, ma anche Botswana, Costa Rica, Israele, Mauritius, Perù e Filippine. La mescolanza delle diverse regioni, culture e tradizioni rappresentate fornisce la base per un’istituzione veramente globale. Altri paesi potrebbero entrare dimostrando un impegno profondamente radicato per la democrazia.

Il secondo criterio per far funzionare quest’Alleanza è quello di darle un ampio mandato con responsabilità reali. La Comunità delle democrazie cerca di promuovere la democratizzazione su scala mondiale. Lo scopo dell’Alleanza delle democrazie sarebbe più ambizioso: unirebbe le democrazie per fronteggiare le minacce alla sicurezza comune.

I membri dell’Alleanza lavorerebbero insieme per rafforzare la cooperazione e combattere il terrorismo internazionale, bloccare la proliferazione delle armi, fermare la diffusione di malattie infettive e rallentare il riscaldamento globale. E servirebbe anche a promuovere i valori che i suoi membri considerano fondamentali per la loro sicurezza e il loro benessere: il governo democratico, il rispetto dei diritti umani e l’economia di mercato.

L’Alleanza delle democrazie manderebbe definitivamente in pensione l’Onu, oppure rimangono ancora degli spazi e delle funzioni per l’organizzazione guidata da Kofi Annan?
L’Alleanza delle democrazie non dovrebbe essere un sostituto o un’alternativa alle Nazioni Unite. L’Onu avrà sempre un ruolo negli affari internazionali proprio per il suo carattere universale. Dove e quando è possibile raggiungere un consenso per agire nella comunità internazionale, è giusto cercarlo. Ma come abbiamo visto nell’ultimo mezzo secolo, troppo spesso le divisioni interne all’Onu ne impediscono l’azione. È per questo che è necessario guardare altrove.

Per molti aspetti un’Alleanza delle democrazie sarebbe complementare all’Onu. La sua esistenza come minimo spingerebbe le Nazioni Unite a riformarsi se non vogliono diventare irrilevanti. Nelle istituzioni come nel mercato, la competizione induce miglioramenti. Oltretutto, un’Alleanza delle democrazie opererebbe in parte attraverso le istituzioni internazionali esistenti: diventerebbe un potente caucus nelle Nazioni Unite e nelle agenzie affiliate, permettendo ai suoi membri di consorziare i loro voti e di esercitare influenza diplomatica in maniera coordinata.

Per realizzare appieno il suo potenziale, però, l’Alleanza dovrebbe anche sviluppare sue proprie capacità. Sul fronte militare, questo vuol dire emulare la Nato. L’Alleanza elaborerebbe una dottrina, promuoverebbe l’addestramento e la pianificazione comune e accrescerebbe l’interoperabilità fra gli eserciti dei suoi membri. Questi sforzi potrebbero coprire tanto gli stati di guerra ad alta intensità, tanto le operazioni di peacekeeping.

E avrebbe un ruolo da svolgere anche al di fuori degli stati di guerra o di peacekeeping?
La sua portata si estenderebbe alle questioni economiche: i suoi membri potenziali sono responsabili del grosso dell’attività economica mondiale e costituirebbero un potente blocco di voti nell’ambito della Organizzazione Mondiale per il Commercio. Per approfondire i reciproci legami e rafforzare l’importanza dell’Alleanza, bisognerebbe eliminare le tariffe e altre barriere al commercio fra gli Stati membri. L’Alleanza costituirebbe anche un forum adatto per coordinare strategie di sviluppo e di assistenza finanziaria, per creare un sistema di controllo delle emissioni per combattere il cambiamento climatico ed elaborare nuove politiche energetiche che riducano la dipendenza dal petrolio e da altri combustibili fossili.

Il fine ultimo dell’Alleanza sarebbe fare qualcosa di simile a quello che la Nato ha fatto per i suoi membri durante la seconda guerra mondiale, con una grande differenza: non verrebbe istituita per contrastare un paese in particolare e non sarebbe confinata ad una particolare regione. La sua aspirazione sarebbe, invece, di ingrossare le fila dei suoi membri. Proprio come l’opportunità di entrare nell’Unione Europea ha incoraggiato i governi dell’Europa centrale ad imboccare la via democratica, così la possibilità di diventare membro dell’Alleanza potrebbe fornire validi incentivi perché i paesi in via di democratizzazione completino il loro cammino.

Negli anni Novanta si parlava della fine degli Stati-nazione, schiacciati fra la globalizzazione e le economie regionali. Ma dopo l’11 settembre le organizzazioni internazionali si sono dimostrate incapaci di affrontare la crisi e si è avuto un ritorno degli Stati-nazione. Pensa che si tratti di un reale ritorno o che sia un episodio dovuto alle contingenze?
Le discussioni degli anni Novanta sulla morte dello Stato-nazione erano esagerate. Le conseguenze dell’11 settembre ci hanno ricordato una cosa che avremmo sempre dovuto sapere: gli Stati rimangono gli attori principali degli affari internazionali. Ma ci hanno insegnato un’altra cosa molto importante: persino i paesi potenti come gli Stati Uniti hanno bisogno della cooperazione degli altri per garantire la propria sicurezza e prosperità. Nel mondo della globalizzazione la sfida è quella di creare delle strutture che agevolino la cooperazione. Tali strutture hanno più possibilità di durare e di essere efficaci se gli Stati membri condividono valori democratici comuni.

Come Ann-Marie Slaughter dimostra nel suo libro A new world order, la necessità ha già indotto collaborazioni di sostanza fra i paesi democratici. In materia di criminalità, regolamentazioni finanziarie, anti-terrorismo o altri problemi transnazionali, le agenzie e i funzionari governativi hanno già attraversato i confini per risolvere i problemi comuni. Il compito pratico ora è quello di riconoscere i valori democratici come principi organizzativi di istituzioni internazionali. In assenza di tali sforzi, i problemi transnazionali che tutti temiamo potranno solo guadagnare intensità con l’aumentare della velocità della globalizzazione.


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