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da Ideazione marzo-aprile 2005
Il futuro delle nazioni

di ALESSANDRO CAMPI

[02-2005] Il ritorno della nazione – intesa come realtà politica dinamica strutturalmente connessa con la sfera dello Stato (ma non subordinata a quest’ultimo), come elemento simbolico di identificazione collettiva e di integrazione sociale, come sfera di esercizio della volontà democratica di una collettività liberamente organizzata – è il fatto nuovo, per molti versi inaspettato e ancora largamente incompreso, degli ultimi anni. Contrariamente alle previsioni, l’avanzare del processo di globalizzazione nei diversi ambiti, dalla politica alla cultura, dall’economia alla comunicazione, ha drasticamente ridotto gli entusiasmi (o le paure) di chi immaginava come prossima – come necessaria e ineluttabile – la nascita di una società sopranazionale e globale. Di chi la immaginava caratterizzata sempre più da un capitalismo planetario e privo di ancoraggi territoriali; da un sistema di regole del governo politico di natura post-statuale determinato da organismi e istituzioni internazionali su una base tecnico-amministrativa piuttosto che politico-consensuale; da una cultura, da un senso morale e da una coscienza individuale d’orientamento cosmopolitico alternativi a quelli tradizionali determinati su una base intellettuale di tipo nazionale.

L’incedere della globalizzazione (soprattutto economica) e il processo di costruzione di spazi politici integrati (tipico il caso dell’Unione europea) hanno certamente modificato, rispetto al passato, l’ambito d’azione del potere statale classico e la sfera di legittimità culturale del modello nazionale così come forgiatosi negli ultimi due secoli di storia. Ma non hanno vanificato o reso obsoleto né l’uno né l’altra. Hanno semmai contributo a ridefinire entrambi sul piano concettuale e dal punto di vista funzionale, imprimendo loro un nuovo slancio storico e una rinnovata centralità. Ciò è apparso particolarmente evidente con la crisi politico-militare internazionale apertasi dopo l’attentato dell’11 settembre 2001. Dinnanzi alla gravità della minaccia terroristica mossa dall’islamismo radicale, la lentezza decisionale delle diverse realtà internazionali e sovranazionali, a partire dall’Onu e dall’Unione Europea, la loro incapacità ad assumersi la responsabilità dell’azione e a suggerire una risposta globale ad una sfida altrettanto globale, la loro difficoltà a proporsi come punto di coagulo di una nuova legittimità politica internazionale, hanno fatto sì che fossero gli attori nazional-statuali, in virtù dei rispettivi interessi e calcoli, in forma ora cooperativa ora antagonistica, a suggerire e attuare forme concrete d’intervento politico-diplomatico e politico-militare, a catalizzare il consenso e l’adesione delle rispettive comunità e a definire l’agenda delle priorità.

Sempre nello stesso frangente di crisi si è compreso – a partire dagli Stati Uniti, dove il fenomeno ha assunto un rilievo particolare trattandosi del paese che più di altri può considerarsi il vettore di una cultura globalizzata e libera da ancoraggi storici di lungo periodo – quanto vincolante sia ancora, sul piano delle appartenenze sociali e dei criteri di identificazione collettiva, il sentimento di lealtà verso i simboli nazionali, verso la sfera politico-ideale definita dalla nazione, percepita come orizzonte comune di esperienza e come riserva di valori profondi, legittimati dalla tradizione e caratterizzati, sul piano della percezione individuale, da un fondo di esclusività e di particolarismo. Contro i fautori di un mondo integrato sulla base di valori cosmopolitici, ciò che è emerso, proprio in uno di quei momenti di crisi e di smarrimento così espressivi per l’analisi politico-sociale, è stata la capacità del sentimento nazionale di orientare lo spirito pubblico verso una visione comune e solidale e di offrire all’azione politica un surplus di legittimità e di coerenza. Un’esperienza che si è ripetuta nei diversi paesi, mettendo a nudo una semplice verità: anche l’epoca universale, come già la chiamava Goethe, non può fare a meno della prospettiva nazionale, di un punto di vista sugli uomini, sulla società, sul mondo che continua a privilegiare, senza tuttavia assolutizzarlo come nell’epoca del nazionalismo integrale, lo spazio politico, simbolico e culturale, spazio beninteso dinamico e aperto, definito dalla nazione. La “società cosmopolita”, espressione di un’era che qualcuno vorrebbe già compiutamente post-nazionale, è forse facile da descrivere sulle pagine di un libro o in occasione di un convegno scientifico. Tutt’altra cosa è viverla nella dimensione della vita quotidiana, laddove l’esercizio mentale che gli individui fanno di immaginarsi alla stregua di una comunità politica coesa, fondata su valori e sentimenti condivisi, su una comune volontà, non obbedisce semplicemente ad un condizionamento storico, ma esprime, evidentemente, un’esigenza ben più profonda e vitale.

Il “ritorno della nazione” di cui stiamo discorrendo, e che si riferisce alla nuova vitalità di un modello politico e di una “formula” di convivenza che si ritenevano in via di superamento, non deve essere naturalmente confuso con il fenomeno al quale, anche in Europa, abbiamo assistito a partire dalla seconda metà degli anni Settanta e, con forza crescente, verso la fine degli anni Ottanta, in coincidenza con il collasso del sistema di potere comunista e il venir meno dell’equilibrio geopolitico degli anni della Guerra Fredda. In quell’occasione ciò che si è registrato è stato piuttosto un ritorno di fiamma del nazionalismo vecchio stile: il riapparire sulla scena internazionale di forme di appartenenza collettiva caratterizzate da un forte senso dell’esclusività, basate su un perverso intreccio di sciovinismo e di purezza etnica, di spirito autarchico e di senso della supremazia su base territoriale. Si trattò, all’epoca, di un fenomeno violentemente reattivo, di un’esplosione quasi incontrollata di forme di particolarismo politico aggressive e virulente, conseguenza di un lungo periodo nel corso del quale le appartenenze e le culture nazionali erano state, soprattutto nei paesi gravitanti nell’orbita dell’impero sovietico, compresse, mortificate e private di ogni autonomia sociale e di ogni capacità di espressione politico-culturale. “Quel” nazionalismo aveva, come poi si è visto nel caso dei conflitti etnico-territoriali che ne sono derivati (in particolare nel caso della ex Jugoslavia), un fondo barbarico e pre-moderno: non era il riflesso di un modello politico-istituzionale o di un progetto di esistenza collettiva connesso con il recupero della libertà e il ritorno della democrazia, orientato verso il futuro; era piuttosto un condensato di atavismo culturale e di naturalismo politico, sorretto psicologicamente da un desiderio di riscatto e di affermazione spendibile solo in una logica di contrapposizione frontale tra “nazionalismi” della stessa natura.

“Quel” nazionalismo, in altre parole, era violento e aggressivo, e andava letto, dal punto di vista storico, come il canto del cigno di un modo di intendere il sentimento nazionale risalente ai primi decenni del Novecento. La nazione che riscopre se stessa e la propria funzione storica nel contesto del mondo globalizzato, che si propone come livello politico intermedio tra la sfera globale e la piccola patria (tra individuo e umanità, si potrebbe dire con linguaggio ottocentesco), che si candida ad essere il necessario spazio funzionale per l’esercizio di una politica democratica basata sulla cittadinanza attiva; “questa” nazione è, evidentemente, tutt’altra cosa: non una sopravvivenza del passato, ma una realtà che appartiene al nostro futuro politico. 

Per cominciare, è una nazione la cui natura – l’unica compatibile con un quadro istituzionale caratterizzato dalla democrazia e dal pluralismo – è essenzialmente politica: la sua ragion d’essere non risiede, esclusivamente o in via preferenziale, in fattori d’ordine storico-culturale, in una omogeneità di valori, di tradizione e di lingua supposta come intangibile, bensì soprattutto nella sua capacità, partendo pur sempre da una base storica per definizione dinamica e aperta al cambiamento, a proporre un comune orizzonte di vita collettiva a coloro che vi appartengono per nascita o per elezione. È, per dirla con l’efficace formula introdotta nel linguaggio delle scienze sociali da Dominique Schnapper, una “comunità di cittadini”: un progetto politico particolare che si differenzia da quello perseguito, sulle stesse basi, dalle altre “nazioni” senza che ciò implichi né forme di esclusione verso l’interno basate sulle differenze di credo religioso, di cultura, di etnia esistenti tra i singoli individui e i gruppi sociali che la compongono né forme di esclusione verso l’esterno basate su un malinteso e del tutto anacronistico senso della supremazia. È, insomma, una nazione democratica, una forma di unità politica sovrana e indipendente la cui legittimità storica dipende, più che dal passato, dai traguardi e dagli obiettivi che si è data e dalla funzionalità delle istituzioni comuni attraverso le quali intende perseguirli. È – per riprendere la definizione, di sorprendente modernità, del sociologo e antropologo Marcel Mauss, risalente al 1919-1920 – «una società materialmente e moralmente integrata, con un potere centrale stabile, permanente, con frontiere ben determinate, con una relativa unità morale, mentale e culturale degli abitanti, che aderiscono coscientemente allo Stato e alle sue leggi»: una modalità di organizzazione il cui scopo principale è quello di integrare i singoli, rispettandone tuttavia l’individualità, all’interno di una “totalità” socialmente coerente e politicamente stabile.

Volendo rifarsi a distinzioni e caratterizzazioni del passato, questo modo di intendere la realtà odierna della nazione più che al modello della nazione-storia o della nazione-cultura si richiama, evidentemente, a quello della nazione-politica o della nazione-volontà, le cui origini possono essere fatte risalire alla Rivoluzione francese. In comune con queste ultime e classiche formulazioni, c’è in particolare l’idea – già di Ernst Renan, ma ripresa anche da Josè Ortega y Gasset – secondo la quale la nazione non è qualcosa di dato una volta per tutte, ma una continua costruzione, al tempo stesso un processo (storico) e un progetto (politico). Quanto alla novità, la più significativa è rappresentata dal legame vincolante che oggi esiste tra l’appartenenza alla nazione, politicamente intesa, e l’integrazione democratica, tra nazione e democrazia. Per dirla con le parole di Anthony D. Smith, ciò che è emerso negli ultimi anni è non solo la capacità delle identità di tipo nazionale di fornire agli individui quella cultura pubblica, quel senso «di appagamento culturale, stabilità, sicurezza e fraternità», di cui essi hanno bisogno e che nessun cosmopolitismo è in grado di assicurare nella vita reale dei singoli, ma anche la capacità della nazione – intesa come forma politica della democrazia – a garantire, su basi realistiche, una libera e pluralistica società di Stati nazionali e di appartenenze collettive in un mondo nel quale il sogno del governo unico mondiale rischia facilmente, se perseguito con coerenza, di trasformarsi nell’incubo di una tirannia imperialistica. Ma come interpretare questo “ritorno della nazione” in un contesto storico-politico e culturale particolare come quello italiano? Dopo un lungo oblio, anche in Italia, come nel resto degli altri paesi europeo-occidentali, l’idea di nazione sembrerebbe aver acquisito negli ultimi anni una rinnovata centralità. Dopo la discussione sulla “morte della patria” e sulla crisi della tradizione nazional-statuale, discussione che ha segnato il dibattito politico-storiografico pubblico a partire dalla prima metà degli anni Ottanta, con il passare degli anni le diverse espressioni della cultura politica italiana sembrano aver trovato un punto di sostanziale convergenza intorno ad un “sentimento di patria” fatto proprio, alla fine, anche dagli eredi delle tradizioni cattolica e comunista, le più storicamente propense a declinare l’appartenenza collettiva e i legami sociali secondo valori universalistici. Per il perseguimento di un simile obiettivo, è convinzione diffusa che un ruolo decisivo abbia esercitato la pedagogia civico-patriottica dall’alto perseguita con accanimento dall’attuale presidente della Repubblica, cui certamente spetta il merito di aver riproposto all’attenzione degli italiani e della loro classe politica dirigente i simboli e le parole che definiscono e sostanziano, come si diceva un tempo, l’amor di patria. Ma aver riscoperto la patria su un terreno emotivo e su quello di una generica (e spesso formale) convergenza di valori e principi politici (emblematicamente incarnati nella Costituzione repubblicana, privata della sua dimensione storico-contingente e assunta alla stregua di un corpus sacro) non equivale ancora ad avere preso coscienza del ruolo che le nazioni – o per meglio dire le sovranità e le appartenenze di tipo nazional-statale – sono tornate a rivestire sulla scena politica internazionale.

Ciò è dipeso probabilmente dal fatto che l’idea di patria, nell’uso che proprio Ciampi ne ha fatto nel corso degli anni, è stata considerata come politicamente alternativa a quella di nazione, giudicata non più spendibile nell’epoca contemporanea a causa delle degenerazioni che essa ha comportato nel passato. Un’idea di patria che, detto in altri termini, si è basata per intero sulla spoliticizzazione della nazione, sulla riduzione di quest’ultima ad un semplice simbolismo fatto di inni, bandiere e parate ufficiali. In questo modo non si è valutato che la patria costituisce semmai il fondamento pre-razionale ed emotivo, la base sentimentale ed affettiva, il retroterra simbolico e per certi versi retorico, del concetto di nazione politicamente declinato. Concetto che, come abbiamo accennato, comporta non soltanto una identità collettiva condivisa e uno spirito pubblico comune, ma una specifica proiezione progettuale, un forte grado di unità intorno a istituzioni di governo efficaci, un’autonoma capacità di mobilitazione e d’azione, tanto più necessari nel contesto di un mondo globale nel quale gli Stati-nazione sono ancora la fonte primaria del potere politico, l’ambito privilegiato di identificazione collettiva e l’unica sfera di lealtà politica in grado di garantire autoritativamente i diritti-doveri connessi con lo status di cittadinanza democratica.

Si potrebbe dire, con una formula, che mentre la patria (come sfera sentimentale) guarda al passato, la nazione (come realtà politica) è invece rivolta al futuro. Ciò spiega, sempre con riferimento al contesto italiano, quanto errato sia pretendere di voler edificare un sentimento nazionale all’altezza dei tempi e delle sfide poste in essere dal mondo globalizzato basandosi sulla retorica della “memoria condivisa”. I fautori di questa prospettiva non tengono conto di un fatto elementare: la memoria è, per definizione, selettiva, parziale e soggettiva. Quindi plurale e tendenzialmente conflittuale. Per esistere (e continuare ad esistere) in senso politico-istituzionale, più che sentimentale e retorico, una nazione, come già sosteneva Renan, deve invece basarsi sul parziale oblio del proprio passato, su una memoria offuscata ed evanescente, lasciando agli storici il compito di ricordare e spiegare e affidando invece alla dimensione politica il compito di costruire, nel presente, una volontà e una coscienza comuni come base effettiva della vita nazionale. Riflettendo sulle recenti polemiche relative alla violenza politica che ha insanguinato l’Italia negli anni Settanta, sul continuo rivangare episodi e vicende di un passato che non si vuole far passare, Sergio Romano ha denunciato, come inevitabile, una vera e propria “lottizzazione dei ricordi”, arrivando a scrivere: «L’Italia non è più una patria: è un condominio in cui ogni inquilino è proprietario di una quota parte, di millesimi della memoria nazionale».

La memoria – per di più politicamente e ideologicamente alimentata – genera divisioni, tanto più gravi quanto più destinate a riproporre nel presente linee di divisioni e di contrasto che appartengono al passato. Un legame troppo vincolante con il passato, affidato non alla storia ma al ricordo, personale o collettivo che sia, rischia in altre parole di pregiudicare la costruzione di un senso politico nazionale la cui forza sta tutta nel modo con cui ci si raccoglie volontaristicamente intorno ad uno scopo comune, con cui ci si compatta a fronte di sfide che nessuno potrebbe affrontare e vincere singolarmente, con cui si solidarizza avendo una strada da percorrere insieme e una serie di traguardi da conseguire. Una nazione è vitale e forte, cioè esiste politicamente, dimostra una coscienza e una volontà, quando ciò che divide con riferimento al passato è molto meno importante e vincolante di ciò che unisce con riferimento all’oggi e al domani. Gli italiani hanno riscoperto, dopo un lungo oblio, l’orgoglio di una comune appartenenza patriottica. L’Italia deve ora riscoprire l’utilità e la necessità di essere politicamente una nazione, con ciò che una simile condizione comporta in termini di responsabilità e opportunità nei confronti di se stessi e delle altre nazioni.


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